martedì, 25/11/2008

Fatti, non pugnette

di

Avete presente la vecchia gag "Walker Texas Ranger non è un telefilm, è un documentario sulla vita quotidiana di Chuck Norris"?
Roba scaduta.
Perché nel caso di Steven Seagal, non è una gag.
"STEVEN SEAGAL: LAWMAN", in onda nel 2009, è un Reality Show che seguirà le avventure del nostro nel ruolo di vice-sceriffo a New Orleans – neanche esattamente la tranquilla cittadina di provincia.

Segnatevelo: "STEVEN SEAGAL: LAWMAN".
Un genere televisivo (il reality) e uno cinematografico (l’action movie) uccisi, seppelliti e dimenticati in sole tre parole.

martedì, 25/11/2008

Ditelo con i coretti!

Da una decina di giorni, precisamente da sabato 15, non riesco ad ascoltare musica che non contenga almeno trelinee vocali armonizzate. Dopo l’incredibile concerto dei Fleet Foxes ai Magazzini Generali di Milano, il mio doping personale sono diventati i coretti e le canzoni piene di aaaaaaaaahhhhhhh uuuuuuuuuuuuuhhhhhhhhhh oooooooooooohhhhhhh.
Dopo aver consumato il disco e l’ep delle suddette volpi agili sono andato alla ricerca di altri gruppi che potessero darmi la modica quantità di voci modulate di cui ormai abbisogno per sopravvivere. E ho notato una cosa curiosa: sotto il velo di melodie dolci e melassose, spesso le canzoni coi coretti (da qui in poi CcC) celano retroscena decisamente inquietanti.
Prendete i Fleet Foxes.

Fatto? Immagino che una larga percentuale dei lettori di questo blog conosca il loro singolo più famoso, White Winter Hymnal. Vi siete mai messi a leggere il testo? Se l’avete fatto vi sarete probabilmente resi conto del fatto che la canzone, nonostante quel diffuso sentore natalizio – che come tutti sanno è dato da un misto di mascarpone, zenzero, cannella e sterco di renna – cela un terribile segreto. Andiamo a vedere.

I was following the pack
all swallowed in their coats
with scarves of red tied ’round their throats
to keep their little heads
from fallin’ in the snow

Ok scena bucolica, gruppo di gente… Ma andiamo a vedere dopo.

And I turned ’round and there you go
And, Michael, you would fall
and turn the white snow red as strawberries
in the summertime

Qualcosa non quadra. Ad un’analisi attenta, la drammaticità della scena appare in tutta la sua evidenza.
Michael cade e la bianca coltre di neve si trasforma in una distesa di fragole. Michael non si è semplicemente sbucciato un ginocchio. Michael, chiaramente, perde sangue a fiotti, una quantità probabilmente simile a quella che esce dall’ascensore di "Shining".
Al sesto verso della canzone Michael ancora non lo sa, ma è già morto.
Delle cause della morte del povero Michael non è dato sapere. Ci sono però indizi interessanti nella canzone Mykonos, in cui pare evidente la fuga del protagonista verso lidi pacifici, il sole il mare lo iodio per "dissipare le ombre del casino che hai combinato".

And you will go to Mykonos
With a vision of a gentle coast
And a sun to maybe dissipate
Shadows of the mess you made

I particolari della fuga sono tutti in questi quattro versi. L’interpol indaga.
Appare evidente, quindi, che Michael – da tutti descritto come un bravo ragazzo studioso e diligente che faceva volontariato – è stato brutalmente assassinato dal branco, gente avvolta in cappotti e sciarpe in modo da meglio occultare la propria identità. Poichè ci troviamo negli Stati Uniti, è probabile che ognuno dei partecipanti al massacro avesse con se almeno un paio di pistole, e lo zampillare del plasma dai fori dei proiettili trasforma un pomeriggio in campagnia in un agghiacciante bagno di sangue.
Nessuno si era però accorto di tutto questo, perchè il cantante cela la brutale confessione sotto un tappeto di coretti simil-natalizi, che sviano l’attenzione dell’ascoltatore dal terribile fatto di sangue.
Qualcuno però è stato attento e ci ha fatto un film.


Mentre andavo a caccia di CcC mi sono imbattuto in un gruppo che ascoltavo quando ero piccolo, dai vinili di mammà: i Mamas and Papas. Noti all’universo italico come quelli a cui i Dik Dik devono metà del loro successo (per l’altra metà "sentiti ringraziamenti" ai Procul Harum), sono una band ingiustamente sottovalutata. Al di là di California Dreaming, capolavoro assoluto menomato dal fatto che tutti la conoscono ma quasi nessuno si è preso la briga di ascoltarla attentamente, i M&P hanno scritto una buona quantità di canzoni meravigliose, con intrecci vocali e arrangiamenti tra i migliori di sempre.
Tra le mie canzoni preferite ce n’è una che si chiama I Saw Her Again Last Night. Anche qui, coretti a profusione, cambi di tempo e di mood, in una canzone pop pressochè perfetta. Ad un ascolto superficiale pare una sincera ballata d’amore, di un uomo che ripensa alla sua bella incontrata poche sere prima.
La realtà ancora una volta è ben diversa.

I saw her again last night,
And you know that I shouldn’t

Perchè non avrebbe dovuto? Lei è fidanzata? E’ sposata? Niente di tutto questo.

Just string her along; it’s just not right
If I couldn’t I wouldn’t.
But what can I do; I’m lonely too.
And it makes me feel so good to know
She’ll never leave me.

I’m in way over my head;
Now she thinks that I love her (yeah, yeah)
Because that’s what I said
Though I never think of her.
(No, no, never think of her)

Se avete ascoltato la canzone, il modo in cui queste parole sono cantate, l’arrangiamento, le armonie zucchero e miele, vi sentite un po’ truffati. Mai sareste andati a pensare che questa fosse la versione cantata del noto detto latino "in tempo di carestia ogni buco è galleria." Il simpatico figlio di mignotta canta del fatto che si vede con ‘sta tipa di cui non gli frega granchè ma siccome lei ci sta alla fine perchè negarsi una bottarella o due?
Ma fosse solo questo, vabbè. Lui no, la illude pure, le dice che la ama, lei è completamente persa e lui si vanta con gli amici al bar bevendo crema al whisky col ghiaccio, per poi andare a fare le penne col Booster al parcheggio vuoto dietro lo stadio.

Every time I see that girl,
You know I wanna lay down and die.
But I really need that girl
Though I’m living a lie;
(Though I living a lie…)
It makes me wanna cry

Ma vai a cagare, ipocrita! Pensate, gli vien pure da piangere, povero ragazzo…

Insomma la lezione l’abbiamo capita: con i coretti si può dire qualunque meschinità o nefandezza, e la gente se la beve meglio di un chupito.
Avete detto ai vostri genitori che vi laureate a febbraio ma in realtà avete dato solo due esami in sette anni?
Non c’è più bisogno di impiccarsi il giorno della laurea nel bagno dell’università, che si sporca pure il vestito buono: ingaggiate un gruppo vocale che metta in musica il vostro misfatto e vedrete che i vostri parenti lo accetteranno di buon grado!
Probabilmente vi daranno un buffetto e vi diranno sorridendo "sei sempre il solito…Però potevi avvertirci prima che vendessimo tuo fratello per pagarci il viaggio in corriera per venire da Agrigento ad Aosta…".


Extra: un po’ di mamme e papà
:

The Mamas and The Papas – I Saw Her Again Last Night (MP3)
The Mamas and The Papas – Creeque Alley (MP3)
The Mamas and The Papas – I Call Your Name (MP3)

lunedì, 24/11/2008

Penitenziaaaagite!

Nei periodi di crisi succede quasi sempre: tanto la società va in malora, quanto in tv satire e imitazioni la fanno da padrone, raggiungendo livelli di grande qualità. Penso al Brunetta di Crozza, alla Gelminipimer della Cortellesi (ma anche -benchè centri poco- alla risposta a Giusy Ferreri di Checco Zalone che segnalava ieri Simona) , che nell’era di YouTube anche chi guarda poco la tv come il sottoscritto può recuperare senza troppi problemi.

La vetta secondo me l’ha toccata Neri Marcorè la scorsa settimana a Parla con me, con una strepitosa interpretazione della Binetti, posseduta dalle mille anime del PD e da alcune citazioni che mi hanno fatto rotolare dalle risate. 

 

E ora preghiamo tutti con la preghiera che Ruini ci ha insegnato:

Casini nostro che sei nel centro
Opus dei che sei con la CEI
Sia santificata Famiglia Cristiana
Venga l’esenzione ICI
Sia fatta la volontà dell’Osservatore Romano
Come alla radio così in tv
Dacci oggi il tuo veto quotidiano
E rimetti a noi i nostri debiti
Come noi li rimettiamo l’8 per mille
E non ci indurre in tentazione di spostarci anche poco, anche poco poco poco, anche pochissimo, neanche una ‘nticchia a sinisttra
Ma liberaci dalle sentenze della Cassazione
Amen

 

venerdì, 21/11/2008

Acqua in bocca!

In Italia ogni persona consuma in media circa 200 lt di acqua al giorno per usi domestici. Inoltre da noi, che siamo raffinati, usiamo l’acqua potabile non solo per bere e cucinare, ma anche per gli sciacquoni del wc e per altri usi non alimentari (a differenza di altri paesi europei).

 

Addirittura, secondo il WWF oltre al consumo reale dovremmo calcolare anche il consumo di acqua "virtuale" , ovvero quanta acqua è servita per produrre un bene o un servizio. Qualche esempio? Ogni volta che beviamo un bicchiere di vino sono 120 lt di acqua. Un uovo, 135 lt. Un maglietta di cotone, 2.000 lt. Ed un hamburger ben 2.400 lt.

 

Pensare ad una vita senza magliette di cotone, uova, e soprattutto vino è pressoché impossibile, ma esistono molti consigli sul come risparmiare l’acqua che consumiamo direttamente senza troppi sforzi: dal preferire la doccia al bagno in vasca, al chiudere il rubinetto quando ci si insapona o ci si lava i denti, ad usare un frangigetto per i rubinetti, etc.

 

Non siete ancora convinti? Provate a immaginare come sarebbe vivere senza acqua corrente…

 

 

giovedì, 20/11/2008

Works for me

 

In campo informatico, l’espressione «Works for me» è una brutta bestia.

Nella sua accezione più comune viene solitamente usata da un programmatore per indicare l’esito della sua verifica di un problema precedentemente segnalato da un tester. «Works for me« vuol dire «Da me funziona» ed è contemporaneamente un alleggerimento della coscienza («Non sono stato io!») e l’attestazione dell’impotenza del programmatore di fronte al presunto problema, che porta al dubbio strisciante che ci sia davvero un errore, ma che questo si verifichi solo in circostanza difficili da ricreare, che lo rendono particolarmente infido da individuare e quindi da risolvere. Non una bella situazione.

 

Sono abbastanza sicuro che i The Twelves non pensassero a questo quando hanno scritto il loro pezzone Works for me, ma mi piace pensare che un po’ dell’ambivalenza del significato informatico sia rimasta (però il testo è abbastanza inutile, da quanto sono riuscito a capire). Elegante e dolceamaro gioiellino di pop elettronico ballabile (strettamente parente di quello che una volta si chiamava french touch, direttamente sui passi di Phoenix e Daft Punk), Works for me è uno dei primi pezzi originali pubblicati dal duo di DJ e produttori brasiliani che nell’ultimo anno ha fatto parlare di sè mezza blogosfera. Dopo una notevole quantità di remix molto belli (tra i nomi più grossi Kylie Minogue e M.I.A., ma i miei preferiti sono quelli dei Black Kids) e un paio di mixtape diffusi in rete, i primi pezzi autografi promettono davvero molto bene. Un tocco di Francia dal Brasile con doppio senso informatico, chi l’avrebbe mai detto.

 

The Twelves – Works for me (MP3)

Black Kids – I’m not gonna teach your boyfriend how to dance with you (The Twelves remix) (MP3)

The Twelves – Episode 2 mixtape (Zshare > MP3 con 11 canzoni)

 

mercoledì, 19/11/2008

Extreme pants flipping

Non so voi, ma io quando mi infilo i pantaloni rischio quasi sempre di schiantarmi al suolo perchè ho qualche difficoltà a stare in piedi su una gamba sola. Guardare come saltano nei propri jeans i quattro tizi di questo video (con tanto di ostacoli e capriole, e a un certo punto c’è pure un altalena) mi suscita un’invidia senza pari. A giorni spunterà sicuramente fuori che è il video virale della Diesel, fino ad allora, però, me lo godo pieno di ammirazione.

 

mercoledì, 19/11/2008

Svetlana e il narcisismo. Una storia vera.

di

(tempo di lettura previsto: 6 minuti)

Un mesetto fa, tale Carmen Joy King fa un pezzo su Adbusters in cui racconta la sua decisione radicale riguardo al mondo del social networking:

A marzo, al culmine della popolarità di Facebook, io ho smesso. Con quattro semplici clic del mio mouse ho cancellato il mio account. Finiva così l’intero alter ego elettronico che avevo creato per me stessa – foto del profilo, interessi e attività, esperienze di lavoro, amici acquisiti – tutte quelle cose attentamente studiate perché il mondo potesse ammirare, in vetrina, la versione migliore di me erano ora cancellate del tutto.

Carmen Joy King spendeva grandi quantità di tempo su Facebook. E proprio mentre cercava una nuova citazione cool per aggiornare il suo status, s’imbatté in Aristotele: Siamo quello che facciamo ripetutamente. Per Carmen fu un’epifania:

Cos’ero, dunque, io? Se il tempo lo trascorro a cambiare la foto del mio profilo Facebook, a pensare a un aggiornamento intelligente del mio status su Facebook, a controllare ancora una volta il mio profilo per vedere se qualcuno ha commentato sulla mia pagina, è questo che sono? Una persona che ri-visita i suoi stessi pensieri e le sue stesse immagini per ore e ore ogni giorno? E quindi come mi si può definire? Egotista? Voyeur?

Secondo la prof.ssa Twenge della San Diego University (che la King interpella), il narcisismo irrefrenabile della Generation Me o Generation Look at Me – tutti figli dei baby boomers – sarebbe una deviazione perversa dell’estremo individualismo inculcato ai bambini a partire dagli anni 70. L’autostima instillata da slogan quali "esprimi te stesso" e "sii te stesso" sarebbe il principio dei mali.

Per convincere l’intervistatrice, la prof.ssa Twenge spiega anche che nei racconti pubblicati negli anni 80 e 90 c’è un vistoso aumento di parole quali Io, Me, Me stesso, Mio al posto di termini colletivi come Noi, Umanità, Paese o Folla. Per la prof.ssa Twenge questa potrebbe essere la generazione meno coscienziosa e meno comunitaria dell’intera storia del Nord America.

Carmen si convince di aver fatto la cosa più giusta a chiudere il suo Facebook, anche se scopre di non aver sconfitto del tutto il narcisismo:

Dopo aver lasciato Facebook, cominciai a chiedermi che cosa avrebbero pensato tutti i miei amici e i familiari e i conoscenti della mia scomparsa dal mondo di Facebook. Dunque un po’ del mio Facebook-narcisismo – mi stanno notando, sentono la mia mancanza – è rimasto. Però mi sto anche ponendo delle nuove domande. Come faccio a trovare un equilibrio  tra la mia vita online e la mia vita "vera"? Fino a che punto l’esposizione è salutare? Come posso agire responsabilmente per me stessa e relazionarmi alle persone a cui tengo? Queste sono ancora pensieri su "me stessa" ma rispetto a prima sembrano differenti.

Pensieri importanti.

Invidioso delle profonde riflessioni scaturite dall’esperienza di Carmen Joy King, riflessioni convalidate persino da accademici che hanno studiato a fondo la faccenda, decido che devo tentare anch’io un’impresa socioculturale altrettanto estrema e illuminante. Ma siccome Facebook mi sta simpatico e mi serve per tenere contatti con tanta gente sparsa in tanti posti e per spettegolare sulle foto di questa o quell’altra festa sfigata, decido di iscrivermi a Badoo.

Badoo, per chi non lo sapesse (io non lo sapevo), è uno dei 10 siti di social networking più popolari d’Europa (in Francia è addirittura il numero 3). O almeno così dice Wikipedia. Ma quel che più m’intriga (socioculturalmente) è che Badoo sembra essere il più popolare sito di social networking del mio paesello natìo. O almeno così ho potuto appurare dopo un rapido sondaggio al Pub lo scorso dicembre.

L’idea chiave di Badoo è che tu metti delle foto di te e la gente ti dà dei voti. Gente che passa per il tuo profilo perchè ha utilizzato delle funzioni di ricerca molto simili a quelle dei dating websites (stando a quanto mi hanno raccontato). Anche la filosofia sottostante è assai diversa da quella abbracciata da Facebook: la gente che ti scrive non è già tua amica nella "realtà", ma vorrebbe diventarlo. Possiamo dunque dire che Badoo promuove un’idea attiva del social networking – in luogo dei pigri meccanismi facebookiani che convalidano e riconvalidano sterilmente conoscenze già in essere. Non solo: Badoo ha anche l’audacia di sfidare il buonismo melenso di Facebook: qui nessuno si manda abbracci a forma di scimmiette o altre coccolose manifestazioni amicali – qui si dà un Voto alla Tua Faccia. Da 1 a 10.

Badoo, possiamo concludere, rivela la nuda verità delle dinamiche sociali. E s’affida a una forma interessante di darwinismo democratico, premiando chi riceve i voti migliori per le sue qualità fotogeniche e punendo chi invece non riesce ad affermarsi. E nessuno può mettere come profile picture una foto in cui non si vede bene la faccia (tipo quella in cui un finto squalo di plastica ti ha ingoiato per metà o quella delle tue sneakers su un prato verde). Su Badoo questi espedienti creativi non funzionano: mostra bene la faccia, così ti diamo il voto che ti meriti.

Una ventata d’aria fresca, insomma. Sani istinti basici contro le ipocrisie infantili e regressive della Generazione Facebook.

Tuttavia, mentre su Facebook succedono delle cose anche se tu non ti attivi più di tanto, su Badoo l’azione latita, salvo che tu non ti voglia lanciare in esplorazioni fotografiche, dare voti o provare a relazionarti socialmente con qualcuna che ha una foto socialmente promettente. In più di un mese, gli unici momenti degni di nota della mia vita su Badoo sono stati: 1) quando una ragazzina di 16 anni della provincia di Varese ha dato 1 alla mia foto e 2) quando una signora sovrappeso di vicino Caserta ha dato 10 alla mia foto.

Negli ultimi 12 giorni, però, le cose cambiano.

E allora mi armo di tutte le mie più acute intuizioni socioculturali per analizzare gli eventi.

Ciao!!! Il mio nome e Svetlana! Io guardai la vostra struttura e vi interessate a me. Voglio imparare di piu su di te. Se non contro di voi che scrivete a me per e-mail […] mi aspetta da voi per la lettera circa impazienza! Svetlana

Questo è il primo messaggio che ricevo. Ora, non posso dire che in astratto l’idea che Svetlana (che è una ragazza fotogenica) imparasse di più sul mio conto fosse esattamente contro di noi. Tuttavia, la cosa della "struttura" mi inquietava un po’, così decisi di soprassedere. Dopo qualche giorno, un’altra utente di Badoo mi scrive un messaggio:

Ciao!!! Il mio nome e Svetlana! Lei ha interessato anche io mi ha voluto scrivere a voi. Spero che lei non contro di amicizia che abbiamo potuto comunicare con voi? E possibile scrivere di me sul mio indirizzo privato […] Io attendere da voi per la lettera circa impazienza! Svetlana.

(E non pensate che Svetlana sia un nome diffuso solo tra gli anticonformisti utenti di Badoo. Su Facebook ce ne sono centinaia e centinaia).

L’arrivo di un terzo messaggio dai toni affini coincide con un’illuminazione.

Cosa sono diventato? Uno che rifiuta una parola di amicizia a delle simpatiche ragazze dell’Est soltanto perché non sfoggiano, tra i loro talenti, una sicura padronanza della mia lingua? Quante parole saprei dire io in Russo? Sono diventato uno snob fastidioso e sessista? Uno pronto a firmare sproloqui pseudo-critici solo per riaffermare allo stesso tempo la mia vibrante presenza e la mia superiorità all’hic et nunc della cultura pop? E poi cosa m’inventerò? Andrò a intervistare un ricercatore del DAMS sul potenziale sovversivo e autenticamente antagonista di Badoo rispetto all’autoerotismo anestetizzato e borghese di Facebook? Come posso definirmi? Un reazionario? Uno contro di amicizia?

Ho deciso quindi di cancellare il mio profilo Badoo. Badoo non l’ha presa proprio bene:

Roberto, non riusciamo a capacitarci delle ragioni che ti hanno spinto fino a questo punto. C’è sempre una soluzione ai problemi della vita. In ogni caso, se dovessi decidere di continuare comunque, ti preghiamo di spiegarcene la ragione nello spazio qui sotto. Utilizza le tue ultime parole per spiegarci cosa e come potremmo migliorare!

Quando decido di proseguire – interrogandomi sulle potenzialità enormi del suddetto messaggio e del sottile confine tra suicidio virtuale e reale che il messaggio sembra ignorare del tutto – Badoo assume un atteggiamento passivo-aggressivo:

Non sappiamo che dire…

Possiamo immaginare che una e-mail sarà inviata all’indirizzo specificato.

L’email è arrivata. Dice che ho 3 settimane di tempo per ripensarci, poi il mio profilo sarà cancellato per sempre.

Mi chiedo se le due Svetlana e l’altra di cui non ricordo il nome si stiano interrogando sulla mia virtuale scomparsa.

Intanto, nel giro di niente, la relazione del mio amico M. è passata da It’s complicated a Single.

 

martedì, 18/11/2008

Matte’s CMJ Marathon report / 2

di

Seconda parte del resoconto sulla CMJ Marathon svoltasi tra il 22 e il 26 ottobre scorso a New York (qui la prima parte).

 

 

Venerdì

Parto in quarta perdendomi, bestemmiando un bel po’, il set dei danesi Kirsten Ketsjer. A detta di quelli che li hanno visti, si e’ trattato di una delle migliori sorprese di questa CMJ (anche se sono in giro da un po’ di tempo). Consigliati per gli appassionati dell’indie dei primi anni ’90 e chi ama bands eclettiche e vagamente sperimentali. La giornata per me inizia al Cake Shop dove, tra gli altri, vedo i concerti di Women (che un po’ mi annoiano ma poi rivedo, apprezzando, sabato v. piu’ in la’) e Phosphorescent. Phosphorescent e’ il progetto del brooklynite Matthew Huock; alle spalle ci sono gia’ una manciata di albums ed EPs. Il set del Cake Shop e’ suggestivo. Accompagnato da una band, il lo-fi cantautorale e vagamente folkie di Huock suona solido ed emotivo. Alcune canzoni al secondo ascolto iniziano a prendermi. Il pubblico sembra aprezzare parecchio. Lasciato il Cake Shop mi dirigo al Fort Fader per il party di Fader e Levi’s. Scena completamente diversa qui. Evento molto pompato, tanti faccioni newyorkesi, ma anche un ottimo open bar e una scenografia azzeccata. Arrivo che suonano gli australiani Seabellies, di cui non sapevo una cippa e che, nonostante un suono un po’ derivativo (Arcade Fire in testa), hanno dei pezzi carucci. Alle mie amiche piace il cantante, mentre a me e i miei amici la cantante… tutti accontentati insomma. La gita al Fort Fader era stata fatta, oltre che per sentirci tutti un po’ piu’ stilosi, per gli/le School of Seven Bells (ex chitarrista dei Secret Machines e due sorelle di Brooklyn alla voce e tastiere/laptops) tra le bands piu’ hyped della manifestazione. Il live non mi ha convinto molto, purtroppo (il cantato in particolare non mi e’ parso impeccabile). Col tempo pero’ sono certo sapranno migliorsi: le canzoni sono belle e loro hanno tutte le carte per affermarsi.

 

Kirsten Ketsjer – Ernie and the Sandstorm (MP3)

Phosphorescent – A Picture of Our Torn Up Praise (MP3)

School of Seven Bells – Connjur (MP3)

 

La serata si chiude col live di Jay Reatard alla Bowery Ballroom. Reatard e’ un giovane garage/punkrocker che viene attualmente portato sul palmo della mano da quei cinque blog e siti che contano nella scena indie nordamericana. Parecchio prolifico (scrive una canzone al giorno e ne registra due o tre alla settimana…), si e’ fatto notare per avere fatto uscire un’infinita’ di 45 giri (ora raccolti in due collezioni uscite nei mesi scorsi, personalmente preferisco quella che copre le annate 06/07) e un buon album di esordio. Dal vivo il nostro propone sets tiratissimi, senza piu’ o meno interrompersi mai tra un pezzo e l’altro. Rispetto ai pezzi incisi su disco, dal vivo le canzoni sono molto piu’ veloci e pesanti. Suoni ipersaturi e molta molta rabbia. Peccato che anche questa volta abbia indugiato nel vezzo non troppo galante (e punk) di prendere a calci e pugni chi cerca di salire sul palco… (anche se poi tira su dal pubblico un mega nerd cui fa fare l’assolo di chitarra nell’ultimo pezzo). Dei gruppi di apertura – gli inutili Longwave e gli insopportabili White Lies – non ho molta voglia di parlare (temo che purtoppo nei mesi a seguire dovremo imparare a sorbirci i secondi, col loro stucchevolissimo e posticcio revival Joy Division/primi U2/Echo & The Bunnymen, al cui confronto gli Editors sembrano degli innovatori alla John Zorn).

 

 

Sabato

Mi sveglio e non posso che constatare di essere completamente sfatto. Vorrei poter starmene a letto a poltrire fino alle 5 del pomeriggio e invece… Invece c’e’ il terzo showcase di BrooklynVegan, questa volta alla Knitting Factory. Meta’ degli artisti sono stati selezionati dal mio amico Fred aka Blackbubblegum, l’esperto di metal (ma non solo) di BV. Per cui non ci sono scuse e faccio il piacere di portare le mie chiappe alla Knit. La venue ha tre palchi dislocati su tre piani. Cosi’, per un buon sette ore abbondanti faccio su e giu’ con l’inerzia del maratoneta nei suoi ultimi chilometri (il nome dell’evento non e’ in effetti casuale). Non ricordo in che ordine ma vedo una marea di bands a me semisconosciute, tra cui gli ottimi Delta Spirit (californiani a meta’ tra americana e northern soul, molto coinvolgenti: sono circa le tre del pomeriggio e tutti quanti ballano come fossero le tre di notte), i noiosetti Shout Out Out Out (fanno dancetronica, non dimentichero’ mai che il momento piu’ bello sono stati i Daft Punk nel PA mentre veniva montato il palco, peraltro cargo di strumentazione fighettosissima), i rumororissimi e violenti Trap Them (non la tipica band di cui si parla da ‘ste parti, per cui non mi dilungo se non per dire che sono stati perfetti dal vivo), gli un po’ inutili Made Out of Babies (riot grrrl meets three metal dudes, together they form a band and come up with some tasteless Alice in Chains stuff and some of the worst LP artwork I have ever experienced) e gli acidi e assai interessanti Lemonade da San Francisco.

 

Delta Spirit – Trashcan (HYPEM link)

Lemonade – Sunchips (RCRD LBL link)

 

Tra i nomi meno semisconosciuti (ripeto, a me), la giornata offre altre cose interessanti, a partire da Marnie Stern, il cui ultimo disco ha fatto parlar gran bene. Trovo lei e la sua voce sempre in bilico tra la follia pura e il genio. Non sono ancora sicuro se davvero serva tutto quel virtuosismo che alle volte trovo persino fastidioso e anche un po’ cheap: cresciuto, ahime’, con Vai e Satriani in una fase breve ma importante della mia vita, il suo guitar tapping non mi impressiona piu’ di tanto. Buffo come il suo segno distintivo sia la cosa che trovo meno interessante. Comunque lei e’ molto simpatica e carina dal vivo e il concerto viene molto gradito dal pubblico (e dallo stesso BrooklynVegan che si agita parecchio accanto alla console). Tra le grandi attrazioni della giornata ci sono i da poco riuniti Rival Schools, il piu’ recente progetto della leggenda hardcore Walter Schreifels (in giro da quando aveva circa 14 anni e con passato glorioso nelle fila di Youth of Today, Gorilla Biscuits e Quicksand). I Rival Schools, in cui militano anche ex componenti degli Iceburn, fanno un indie/emo radicato in tipiche sonorita’ 90s. Visto che sono stati tra i primi a proporre la miscela (si sono orignariamente formati nel ’99), non li puo’ tacciare di scarsa originalita’. Cio’ detto, nonostante lo show sia molto piacevole, non riesco a scrollarmi dalla testa l’idea che i Rival Schools siano piu’ che altro un’all star band del passato. A breve ci sara’ un nuovo disco e saro’ felice se le mie riserve saranno smentite. Finiti i Rival Schools mi imbatto ancora nei Women, visti anche il giorno prima al Cake Shop. Non so se sono io o sono loro, ma mentre la prima performance mi dice poco niente, la seconda mi rapisce. Psichedelici, retro, sperimentali, mi catapultano in atmosfere fuori dal tempo come solo i primi Clinic. Una delle piu’ belle sorprese della CMJ. Prendo e consumo il disco di esordio. Non vedo l’ora di ribeccarli al prossimo passaggio. Poco dopo e’ la volta dei Mae Shi, che vedo per la prima volta dal vivo. Come da attese, sono molto molto meglio che su disco. Parecchia improvvisazione e situazionismo. Sembra a tratti di essere a teatro. Grande interazione con gli spettatori. Nel mentre tra il pubblico iniziano ad aggirarsi Rude Bear (no, non e’ uno degli Animal Collective: e’ un tizio che va a concerti vestito da orso e baccaglia le tipe al bar, un nuovo role model insomma) e Mike D dei Beastie Boys (e io per poco non collasso dall’emozione). Dopo i Mae Shi e’ la volta dei Lightspeed Champion in versione rimaneggiata (e senza piatti della batteria per la prima meta’ del concerto). Il loro leader Dev e’ oramai newyorkese d’adozione da qualche tempo e col suo berretto di lana dei Knicks e’ facilmente riconoscibile nei bars. Il suo ingaggio allo showcase e’ avvenuto davanti ai miei occhi il giorno prima, a meta’ pomeriggio in mezzo alla strada in Ludlow Street: il buddy Fred/Blackbugglegum lo vede e gli chiede se vuole suonare, lui caccia un urlo che fa girare tutti i pedoni quando viene a sapere che ci sarebbero stati i Rival Schools, e poi dice: "Ha! BrooklynVegan e’ l’unico sito che parla bene di me: fammi fare due telefonate ma penso proprio di si’". Lo show e’ improvvisato all’ultimo momento e fatto principalmente di covers, piu’ o meno a richiesta, tra cui pezzi delle Heart, dei Pixies (Alec Eiffel, secondo momento Trompe Le Monde di questa CMJ) e Nirvana (School, peraltro eseguita in maniera superba). Sempre un live divertente il suo.

 

Marnie Stern – Every Single Line (MP3)

Women – Black Rice (MP3)

Women – Group Transport Hall (MP3)

 

Questo e’ quanto ho visto e sentito in quei cinque giorni. Uno sputo rispetto a quello che c’era in giro ma, privo del dono dell’obiquita’, era ovvio dover saltare una marea di artisti che pur avrei visto piu’ che volentieri, tipo Crystal Stilts, Fucked Up, Gang Gang Dance, Crystal Castles, Lykke Li, Deerhof, Fujiya & Miyagi, Roisin Murphy, Dungen, etc. Oh, siete tutti liberi di prendermi a male parole per le scelte da me fatte, il piu’ delle volte, lo ammetto, avvenute under the influence. Next big thing? Mah, non saprei proprio. Probabile qualcuno a caso tra Reatard, Crystal Stilts, Friendly Fires e/o forse Phosphorescent (e i White Lies pure, ma sono posseduti dallo schifo). A parte che la ricerca non e’ che mi ecciti piu’ di tanto — salvo poi spaccare la testa al prossimo quando incappo in una. Quindi preparatevi che torno a tirarmela peggio di James Murphy non appena uno dei gruppi segnalati sopra mi prende un 4 su 5 sul Rolling Stone o un 7.2 su Pitchfork o finisce in alto nelle vostre classifiche lastfm o di fine anno. A proposito, l’anno volge al termine: bloggers, ci state dando con la classifichina?

 

venerdì, 14/11/2008

Altro che Spike Gondry

di

Ok, mi faccio perdonare per la mezza marchetta di ieri postando il candidato numero 1 a Miglior Video Del 2008 E Non Solo.
Cioè, vorrei essere sicuro che non ve lo scordate quando fate le vostre classifiche di fine anno, perché non l’ho visto molto in giro… anzi, ora telefono al Dipartimento dell’Hype e mi assicuro che non ci sia stato un intoppo burocratico da qualche parte.
Ho amici al Dipartimento dell’Hype.
Stagisti, per lo più, ma qualcosa lo possono fare.
Ma bando alle ciance e diamo alcune informazioni random per gli amanti dell’aneddotistica da bar: la band si chiama The Giraffes e vengono da Brooklyn.
Brooklyn è un piccolo quartiere poco conosciuto nello Stato di New York, USA.
New York, per farvi capire meglio se non avete presente, è dove c’è Williamsburg… esatto, ecco, Brooklyn è più o meno da quelle parti, anche se la scena non è ovviamente la stessa.
Il cantante dei The Giraffes ha subito due infarti nel 2005 che lo hanno lasciato con centinaia di migliaia di dollari di debito e lo costringono tuttora a girare con un defibrillatore incorporato (sarà il gadget più cool nel 2009).
Il batterista invece è conduttore dell’edizione indie di "Pimp my Wheels". Giuro.
Il pezzo in questione si chiama "Man U" ed è estratto dal loro ultimo album intitolato "Prime Motivator", uscito per la Crustacean Records (etichetta da tenere d’occhio, se vi state annoiando).
Ci siete? Pronti via:

venerdì, 14/11/2008

Il superquizzone

1) "La Repubblica" di oggi, pagine 6-7: Diaz, assolti i vertici della polizia. Appena tredici condannati su ventinove imputati.

2) "La Repubblica" di oggi, pagina 10: Salta l’elezione di Leoluca Orlando alla presidenza della Vigilanza Rai. Il centrodestra elegge Villari, PD.

Quesito: secondo voi in quale di queste pagine, con grande senso dell’opportunità e della proporzione, compare il titolo Veltroni e Di Pietro: siamo al regime?

Domanda aggiuntiva: sempre a proposito di proporzioni,  se per una battuta (rozza e ignorante) abbiamo fatto un sito internet di scuse, cosa dobbiamo fare per tutti i ragazzi stranieri che c’erano alla Diaz?

venerdì, 14/11/2008

New Foxes Old Foxes

Tra qualche ora il sottoscritto è in partenza alla volta di Milano, dove trascorrerà il weekend per incrociare un po’ di amici in occasione dell’imperdibile concerto dei Fleet Foxes (sabato 15 novembre, ai Magazzini Generali). Pare che tra il pubblico saranno presenti addirittura cinque tra gli autori di questo blog.

Dei Fleet Foxes, qualche mese fa, scrivevo:

A qualcuno ricordano il sound senza tempo dei Midlake, ad altri il folk americano elegante dei My morning Jacket, a qualcuno anche gli Animal Collective o gli Hidden Cameras, per la vena psichedelica e l’abbondante uso di cori; c’è chi ci sente un sacco di cose anni ’60 un po’ desuete (tipo i Byrds, gli Eagles o Crosby, Stills e Nash) e chi i recenti indie-heroes Band of Horses, loro concittadini e compagni di etichetta. Quando gli ascoltatori non riescono a mettersi d’accordo su quali siano le tue vere influenze, e quando il mondo musicale comincia a incensarti (9.0 su Pitchfork, Disco del mese su Mojo) anche se la tua band è interamente composta di giovani barbuti che indossano camicie di flanella, e il tuo disco d’esordio ha in copertina non una foto cool ma un dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio, allora vuol dire che sta succedendo qualcosa di grosso. E infatti i Fleet Foxes sono qualcosa di grosso.

 

Le vie dell’hype sono strane e impredicibili, si sa. Ma la band capitanata da Robin Peckold non concede davvero niente alle mode ed ha attirato tanta attenzione su di sè solo ed esclusivamente grazie alle sue capacità. Canzoni splendide e senza tempo (la mia preferita, come sa chi ha ascoltato la fine della stagione di Get Black è il singolo White Winter Hymnal, una nenia che ti si incolla alle orecchie e che sembra qualche remoto classico dei Beach Boys cantato da un coro di monaci gregoriani), arrangiamenti antichissimi eppure modernissimi, e dei live -pare- straordinari (saranno in Italia il 15 Novembre, per una data unica a Milano).
Ma, soprattutto, la tranquillità e la classe di chi non deve dimostrare niente a nessuno, perchè è come se fosse sempre stato qui. [#]

 

Del loro live Matte, che li ha visti a New York a Luglio e, sull’onda dell’eccitazione, è tornato a vederli di nuovo il giorno seguente, scriveva:

Il concerto dei Fleet Foxes a cui ho appena assistito e’ stato semplicemente strepitoso, uno dei migliori (se non il migliore) dell’anno, senz’altro il piu’ emozionante. [#]

E se lo dice lui, che vede decine di concerti al mese nella città in cui passano tutti, c’è da fidarsi.

Se non bastasse, proprio ieri La Blogotheque ha pubblicato uno dei suoi concerts à emporter che ha come protagonista (di nuovo) la band di Seattle, che regala una splendida versione di Blue Ridge Mountain (aperta da Sun Giant) cantata e suonata all’interno di un’ala abbandonata del Grand Palais. Se non vi fidate di me o di Matte, fidatevi delle vostre orecchie.

 

 

 

Fleet Foxes – Mykonos (MP3)  (ALT)

Fleet Foxes – He doesn’t know why (MP3) (ALT)

 

giovedì, 13/11/2008

Not in my name

di

DISSOCIAZIONE! Basta! Diciamo basta alla gente che dice cose che poi altra gente crede che rappresentino il pensiero di quelli che credono di individuare come gente che appartiene alla stessa categoria mentre invece non è vero! Ribelliamoci! Rivendichiamo la nostra unicità e indipendenza! Prendiamo esempio da quelli per primi si sono dissociati dalle parole del nostro (vostro, io personalmente abito fuori dall’Italia) Capo del Governo! Il signor Berlusconi Silvio non è l’unica persona famosa che va in giro spacciandosi per rappresentante delle persone non famose! Ce ne sono altri! Ognuno ha il suo! Denunciamoli! Prendiamo un pennarello ner abbronzato, scriviamo su un foglio bian pallido, fotografiamoci, e mandiamolo a Not In My Name!
Not In My Name
will tumblr it in your name!

(Se qualcuno di voi invece di delirante propaganda alcolica preferisse fare un commento descrittivo/sociologico su ciò che sto linkando è libero di farlo – a nome suo, o ad anonimità sua – nei commenti. Grazie in anticipo.)

mercoledì, 12/11/2008

David Foster Wallace e il Problema dello Stronzo

di

La cosa che vi inquieterà, leggendo questo post, sarà scoprire che David Foster Wallace chiudeva le sue lettere scrivendo Tally Ho prima della firma. Non Cari saluti o Con amicizia o Sinceramente Tuo. Tally Ho. O, almeno, così fa nelle due lettere inedite pubblicate integralmente da Harper’s nel nuovo numero di Novembre.

La cosa che forse non vi stupirà, invece, è che quando sei sicuro che uno scrittore taumaturgo non scriverà più una sola parola, niente di niente di niente, allora ogni cosa che gli è uscita dalla penna fino a quel giorno lì guadagna un’energia strana. Anche un paio di lettere ad alcuni studenti di Yale intorno allo spinoso tema del come prendere per il culo la gente del Midwest nel rispetto dell’etica e del buon senso.

Insomma, la storia è questa. Nell’agosto del ’93, Harper’s Magazine manda DFW a Springfield, IL., per seguire la Fiera Statale dell’Illinois, un evento in cui migliaia e migliaia di persone girano per padiglioni zeppi di bestiame, sudano a 40 gradi all’ombra, si sfidano in gare di tip-tap country, cavalcano giostre pericolosissime, fanno il tifo a incontri di boxe di ragazzini di 10 anni e celebrano festosamente i Frutti della Terra dell’Illinois: dalla Pelle di Porco Fritta ai Corn Dog, dal Pollame agli atletici Stalloni.

Il pezzo esce su Harper’s nel luglio 1994 col titolo Ticket to the Fair e poi diventa uno dei reportage raccolti in A Supposedly Fun Thing I’ll never Do Again (in Italiano il pezzo è Invadenti Evasioni). 

DFW e la "Gente Rurale del Midwest" (come lui chiama i visitatori, con piglio da antropologo-con-casco-coloniale) non entrano precisamente in sintonia:

Il quindici per cento dei visitatori femmina ha i bigodini ai capelli. Il quaranta per cento è clinicamente grasso. A proposito, la gente grassa del Midwest non ha alcun rimorso riguardo all’indossare pantaloncini corti o top smanicati.*


Diciamo che la Gente Rurale del Midwest non è esattamente entusiasta del pezzo. DFW lo racconta nella prima delle due lettere inedite pubblicate da Harper’s questo mese:

Quando feci il pezzo sulla Fiera Statale, pensavo fosse un ritratto abbastanza neutrale, persino favorevole della Fiera […]. Poi, quando uscì la versione di Harper’s, ricevetti lettere di odio, lettere di odio inviate da terzi a giornali del posto. ecc. Il nocciolo delle quali lettere era: Ecco il nativo che è diventato tutto East Coast e Uptown e adesso torna e prende in giro le proprie radici. (I tizi erano particolarmente arrabbiati per i riferimenti al fatto che molta gente fosse grassa. Lo era, è tutto vero – vai a capire).


DWF spiega che nello scrivere delle critiche verso qualcuno o qualcosa, l’equilibrio che lo scrittore dovrebbe rispettare è assai delicato:

Da un lato, uno scrittore deve capire che i suoi principali obblighi di obbedienza sono verso il lettore, non verso il soggetto dell’articolo. L’eccessiva preoccupazione per i sentimenti dei soggetti possono portare a  disonestà di ogni sorta che il lettore sarà in grado di percepire (coscientemente o meno). Dall’altro lato, la vita è breve, e dura, e sembra una buona regola quella di infliggere alle altre persone il minimo dolore o la minima umiliazione possibile mentre ci trasciniamo verso la fine della giornata. In più, se il lettore si fa l’idea che il soggetto è stato riempito gratuitamente di ridicolo o di disprezzo, allora c’è tutta una diversa, più cattiva vibrazione di disonestà o di propositi nascosti che circonda il pezzo. Dunque la cosa è un po’ a trabocchetto.

In certi casi, infatti, DFW ha addirittura deciso di rinunciare a scrivere un pezzo per evitare che la persona coinvolta fosse costretta a leggere le sue critiche:

Ho dovuto lasciar perdere certe recensioni di libri, per esempio, perché mi sono accorto che avevo odiato il libro, il libro era brutto e basta, e semplicemente mi rifiutavo di spendere una settimana e 750 parole per stroncare un libro o per spiegare punto per punto perché era brutto … soprattutto perché io stesso sono stato stroncato, e so come ci si sente, e dopo una certa età non ho lo stomaco di farlo a qualcun altro. C’è una sorta di empatia narcisistica in casi come questi; non mi è del tutto chiaro se ho fatto la cosa "giusta" rifiutandomi di scrivere quelle recensioni. […] Insomma, da un punto di vista etico è tutto maledettamente grigio. Vabbè. Spero che questo abbia un po’ di senso.

Tally Ho.

/dfw/

Nella seconda lettera, prova a teorizzare una soluzione del problema:

Qui parliamo di un tipo di saggio molto specifico che è (a) critico, (b) comico, (c) descrittivo (a differenza di uno principalmente argomentativo o qualcosa del genere). […] A me verrebbe da dire che questo è un tipo di pezzo pericoloso da scrivere, perché pone alcune sfide all’Io Narrante, più specificamente il Problema dello Stronzo. Sono sicuro che l’avete presente: è un disastro se la sensazione più forte percepita dal lettore in un saggio critico è che il narratore sia una persona molto critica, o in un saggio comico che il narratore sia crudele o borioso. Di qui l’importanza di essere critici verso se stessi come lo si è verso la roba/gente su cui si stanno facendo delle critiche. Ora che lo vedo scritto capisco che sembra estremamente ovvio e stupido. Quindi boh. Forse la sfida cruciale qui è quella di dar forma e onorare un contratto col lettore alquanto rigoroso, uno che implichi onestà e non-ammiccamento (sempre che questa parola esista). Cosicché il lettore ha l’impressione generale che c’è un narratore che è principalmente impegnato a provare a Raccontare la Verità… e se la verità implica la coglionaggine di altra gente o di certi eventi, così sia, ma se essa implica la cazzonaggine dello stesso narratore, i suoi pregiudizi, limiti, mancanze, stronzate fatte durante l’evento ecc. allora queste cose vanno dette pure – perché la verità-come-la-si-è-vista è un progetto totale qui. Non ho la minima idea di come ridurre tutto ciò a una ricetta pratica – penso però che qualsiasi contratto serio e indistruttibile tu concluda con te stesso e il lettore, il lettore lo afferrerà, anche se non è un fatto conscio.

Ed è sempre strano leggere di sincerità e onestà e schiettezza in un Grande Autore Postmoderno. O, insomma, lo sarebbe. Se non sapessimo che si tratta di David Foster Wallace.

Tally Ho.

* Non ho la versione italiana del pezzo, qua con me. Le traduzioni le ho improvvisate io, anche ovviamente degli estratti delle lettere.

mercoledì, 12/11/2008

L’angolo delle previsioni del tempo

Una pietra appesa a un filo che dà le condizioni metereologiche. Incredibile, eh?

 

mercoledì, 12/11/2008

Super Obama World

Non faccio in tempo a lamentarmi perchè su questo blog ultimamente si parla solo di Obama (come nel resto del mondo, peraltro; ma siamo ancora nella fase in cui possiamo credere ciecamente alle promesse che rappresenta: godiamocela) che mi segnalano il clamoroso Super Obama World, splendido giochino in Flash che riprende e aggiorna il classico Super Mario World di casa Nintendo.

Il gioco non è ancora completo; al momento c’è solo il primo mondo, l’Alaska (indovinate un po’ chi è il mostro finale), mentre mancano ancora l’Arizona (lo stato di McCain), l’Illinois (quello di Obama) e la capitale Washington D.C, ma è già godibilissimo e fatto davvero bene, e avrete filo da torcere ad evitare le Hockey Moms che fanno lo shopping da Macy’s, i Russi e varie altre bestie assortite.

Già così non sono riuscito ad arrivare alla Palin in motoslitta, ma è solo questione di tempo. E se non c’è la Principessa da salvare, salveremo il mondo. Ci possiamo accontentare.

martedì, 11/11/2008

Giovani, carini e con il ritmo nel sangue

Si è da poco discusso di preach-a-pella (=voce declamatoria quasi da predicatore su musica elettronica fica) e da poco l’elezione del nuovo presidente americano ha fornito un discorso che sembra fatto apposta per essere messo in musica. Il discorso di Obama è così musicale nella ritmica e nell’evoluzione che non ha bisogno di essere manipolato, è già mixtape (è rap direbbe Luzzato Fegiz). Ha già dentro di sé l’house, l’Africa, le armoniche redneck e la festa. Devi soltanto ascoltarle bene e ballare con Ann Nixon Cooper.

It’s The Answer Mixtape – maxcar (ALT)


I Need A Life (Four Tet vs maxcar Bending The Arc Of History Version) – Born Ruffians
I Exist Because Of You (Heinrik Schwarz vs maxcar Brick By Brick Live Version)
– Heinrik Schwarz and Amapondo
Kiss You On The Cheek (King Of Town vs Maxcar I Want To Kiss Ann Nixon Cooper On The Cheek Version) – Desmond And The Tutus

lunedì, 10/11/2008

Reach the stars, fly a fantasy

di

"Lives that keep their secrets will unfold behind the clouds,
there upon the rainbow is the answer to a never ending story"

Quale che sia il valore di un film come La storia infinita o il ricordo che la nostra incasinata generazione ne può avere, certo è che il film di Wolfgang Petersen si porta dietro una delle eredità più pesanti del cinema europeo. Per la pletora di ragazzini che negli anni ’80 finirono sbattuti dentro cassonetti dai loro compagni di classe. Per lo sdoganamento del capezzolo: chi non ricorda i turbamenti vissuti di fronte alle ambigue Sfingi? Ma se escludiamo leggendari personaggi come il Fortunadrago, G’mork e Atreyu (a proposito, lo sapete che fine ha fatto Noah Hathaway?) la colonna sonora è di sicuro la cosa che più facilmente ci porteremo sul letto di morte. Stai per morire e, tac, look at what you seeeeee.

Dopo aver prodotto una compilation-tributo agli anni ’80 intitolata Rewind, il sito spagnolo Buffetlibre ha organizzato una "parte seconda" alla quale hanno partecipato nomi come Au Revoir Simone, Amiina e Setting Sun. E gli italianissimi Canadians. Che hanno scelto, appunto, di eseguire The Neverending Story, con l’apporto vocale di Cherielynn Westrich, ex cantante e tastierista dei Rentals.

Il risultato è davvero notevole: la canzone si può sentire sul profilo myspace del gruppo veronese, oppure scaricare da qui. Grida il mio nome, Bastian.

Neverending story – Canadians feat. Cherielynn Westrich (mp3)

lunedì, 10/11/2008

Conseguenze della scomparsa delle cabine telefoniche

The infortunate result of the demise of the Public Pay Phone.
Metropolis, Illinois

 

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giovedì, 06/11/2008

La notte di Obama (alive blogging)

di


Tenete le vostre cazzo di mani
limey* lontane dalle nostre elezioni
Lettera al Guardian, 18 ottobre 2004


9.28pm, West Broadway, SoHo, New York
Election Night organizzata dal Partito Democratico… Italiano.

Nel 2004 il Guardian organizza l’Operazione Clark County e chiede ai suoi lettori di convincere gli elettori della piccola contea di Clark, Ohio, a votare per John Kerry. Moltissimi lettori scrivono la loro letterina. Pure Luca Sofri. Ma non tutti gli Americani la prendono bene:

KEEP YOUR FUCKIN’ LIMEY HANDS OFF OUR ELECTION. HEY, SHITHEADS, REMEMBER THE REVOLUTIONARY WAR? REMEMBER THE WAR OF 1812? WE DIDN’T WANT YOU, OR YOUR POLITICS HERE, THAT’S WHY WE KICKED YOUR ASSES OUT. FOR THE 47% OF YOU WHO DON’T WANT PRESIDENT BUSH, I SAY THIS … TOUGH SHIT!

Lettera di un cittadino americano al Guardian

E’ comprensibile, su. Sono le loro cacchio di elezioni, insomma. Però come fai a non appassionarti alle elezioni americane? E’ come se, improvvisamente, ti liberi da un peso ancestrale. A casa nostra, sono millenni che non possiamo permetterci la Retorica e l’Idealismo e i Valori e l’Ottimismo di cui la politica americana si ubriaca tutti i giorni. Millenni. E però, ecco, le Elezioni Americane! D’un tratto ti senti assolto da tutto l’ingombrante fardello della Storia. Puf. Liberato da un peso. Yes, we can.

E allora facciamo quello che possiamo per partecipare. Scriviamo letterine. O organizziamo serate con la scusa che da noi c’è un nuovo partito che ha lo stesso nome di un partito americano. Il punto di vista dell’Elettore Democratico Italiano sembra interessante. Così accetto l’invito di un’amica all’evento organizzato dal Partito Democratico (quello di Veltroni) nella nazione del Partito Democratico (quello di Obama) per tifare Barack alle elezioni americane, sperando che la vittoria del Partito Democratico (quello di Obama) possa creare un’onda di speranza e cambiamento che giunga sino in Europa e in Italia e nel Partito Democratico (quello di Veltroni).

Medito sul rompicapo bevendo Birra Peroni, mentre la CNN attribuisce il cruciale Ohio a Barack Obama, senza nemmeno l’aiuto dei lettori del Guardian. Ci sono applausi e “Forza Obama”.

Per le elezioni americane, a centro-sinistra si può dire Forza.



9.41pm, ancora a SoHo, New York

CNN dà il New Mexico a Obama. L’Elettore Democratico Italiano rinuncia persino al patriottico spirito scaramantico e si avventura in frasi premature quali “Ormai è fatta”. I più cauti invitano alla prudenza e si toccano le palle.

10.30pm, sempre a SoHo, New York
Ormai si misura il tempo che passa in Grandi Elettori e Birre Peroni.

11.02pm, sempre là
La CNN annuncia la vittoria di Barack Obama. Posiamo le Peroni. Applausi. Poi perplessità. Ma non è troppo presto? Siamo ancora del tutto sobri. Un tizio dal forte accento ispanico si avvicina al mio gruppetto: Calma, calma, quattro anni fa le proiezioni davano Kerry vincente. Ci tocchiamo le palle.

11.22pm, solito posto.
Esce John McCain per parlare al microfono. Un signore coi capelli bianchi che è stato seduto quieto per tutto il tempo si alza in piedi e urla. “Volume! Volume!”. La cameriera gli sorride. Qualcuno le traduce la cosa in inglese.

11.23pm, ancora là.
“The American people have spoken. And they have spoken clearly”. Applausi. E’ fatta.

11.40pm, in macchina
Finiamo di sentire il discorso di McCain alla radio. Grande discorso. Se faceva così tutta la campagna, magari vinceva.

Mezzanotte, Rockefeller Plaza
In TV sembrava la festa più figa ma dal vivo non è poi sto granché. La NBC ha in pratica affittato la piazza riempiendola di striscioni e ribattezzandola Election Plaza. Sul ghiaccio della pista di pattinaggio ci sono disegnati i 50 Stati. Colorati rossi o blu secondo le proiezioni. Sul grattacielo di fronte alla pista di pattinaggio ci sono due di quei cosi che vanno su e giù per i grattacieli con gli omini dentro per lavare i vetri. Uno ha la scritta Obama e uno ha la scritta McCain. Quello con la scritta Obama quando sale si lascia dietro uno striscione blu. L’altro uno striscione rosso. Un balcone, a una certa altezza, indica l’ambito traguardo dei 270 Elettori. Il cosino lavavetri di Obama è sei o sette piani più sopra del 270. E’ quasi meglio del mitico ologramma della CNN. Però in questa piazza c’è più gente quando accendono l’albero di Natale.

00.02am, Rockefeller Plaza
Sui maxischermi compare Obama. Applausi e festa. La gente si fa le foto. Catturo il momento storico facendomi fare una foto. Ci sono io con le dita in segno di vittoria e sullo sfondo il faccione di Obama. A un più attento esame della foto, sembro un cretino.



00.03am, Rockefeller Center

If there’s anyone out there who still doubts that America is a place where all things are possible, who still wonders if the dream of our Founders is alive in our time, who still questions the power of our democracy, tonight is your answer”

Voglio l’asilo politico.

1.20am, West 50th St.
Ci dirigiamo verso l’Electoral Night organizzata dalla Democratic Leadership for the 21st Century, una “organizzazione indipendente di giovani newyorkesi progressisti”, dice il loro sito. Ma arriviamo troppo tardi. Giovani progressisti ubriachi provano a salire al contrario le scale mobili, fallendo miseramente. Il dj mette vecchi pezzi house. Giovani progressiste limonano già tutte con giovani progressisti. Anime solitarie non sufficientemente progressiste ballano su un tappetto di palloncini scoppiati coi colori della bandiera americana. Sono troppo sobrio per sopportare tutto ciò.

2.46am, Casa.
Mi faccio uno spaghetto al pesto Buitoni, mentre riascolto il discorso di Obama dal laptop. Le piazze sono senza dubbio i posti meno adatti per gustarsi un bel discorso ispiratore. Le figlie di Obama potranno avere il loro cagnolino. Lo spaghetto mi viene perfettamente al dente.

8.17am, Stazione della metropolitana, 14th St.

Non trovo neppure una copia del New York Times in giro. Mi accontento del poco hip USA Today. Sennò finisce come quando sono rimasto senza neppure un giornale dell’11 settembre.

8.21am, Metro E direzione Uptown
Sorseggio il mio bicchierone di caffè. Le ultime notizie dicono che l’obamiana California ha approvato la Proposition 8 per vietare i matrimony gay. E pure l’obamiana Florida. Ci sono già 18.000 coppie dello stesso sesso che si sono sposate in California. D’altronde anche Obama è contrario ai matrimony gay. E Martin Luther King era Repubblicano.

9.00am, Ufficio
Leggo che il ministro Gasparri ha commentato l’elezione di Obama dicendo “Al Qaeda sarà contenta”. Un minuto dopo mi arriva l’email di conferma del mio volo di ritorno per l’Italia. Vorrei che il mio ufficio avesse un mobile bar come quello di Roger Sterling.

(P.S. Stasera, 5 novembre, puntata favolosa di South Park aggiornata alle ultimissime notizie)
   

* Limey è un termine dispregiativo usato dagli Americani per definire gli Inglesi. L’origine è spiegata qua.

mercoledì, 05/11/2008

«Toh, all’Hana-bi è appena entrato Obama»

Sabato, mentre io e Lady Bmw mettevamo i dischi in una discoteca shitgaze (prima o poi sviscereremo insieme, cari amici, il concetto di “discoteca shitgaze”), è entrato Obama in jeans Excel a emissioni zero con l’ologramma di sua nonna vestita da Katy Perry.
Così: in un non brillantissimo sabato sera pre-Election Night (peraltro più affollato di quanto la crisi dell’ippica facesse presagire), mentre stavo passando un po’ di classici della cassa dritta e dischi garage-house che campionano «Virginia, let’s go change the world», lo smilzo e poliedrico “capo del mondo”  (noto per essere il prossimo ct dell’Argentina, nonché presidente della Slumberland Records, quella multietnica, multiculturale, DIY, tra le altre cose) è entrato come un nomade qualsiasi dalla porta del club di Viale Zagabria alla guida di un’auto blu (il colore dei Democratici) di grossa cilindrata investendo 13 persone.
Devo dire che è stato discretamente coinvolgente, o forse come direbbero gli intenditori "psicotico", e mi ha dato modo di fare un tuffo in tempi ormai andati, mettendomi di fronte ad una scena che non vedevo da anni, e che mi ha riportato alla mia adolescenza pre-Murphy therapy.
Poi si è messo in coda, ha pagato, ha ordinato da bere per la nonna, e, dopo aver mangiato un fungo bio-diesel della Patagonia, si è messo a ballare con Grillini e la Binetti.
Io, da grandissimo fan del duo, ho rischiato di svenire, e ho continuato a mettere i dischi di Benga e Skream con il cuore a mille e l’ansia da prestazione di chi si trova davanti la Carfagna, quella sensazione di angoscia sospesa delle "situazioni alla Cronenberg".
Avevo sempre saputo che portarmi nella valigetta una copia in vinile blu (il colore dei Democratici) del tendenzialmente imballabile Everything Ecstatic di Four Tet prima o poi sarebbe servito a qualcosa; così, quando abbiamo fatto partire "Dragostea din tei", Barack ha reagito con lo stile tranquillo e indie che gli si confà: ha alzato le dita in segno di vittoria, e si è messo a ballare come Heidi Klum nello spot di Guitar Hero, suonando almeno dodici strumenti diversi, ad alcuni dei quali non sono nemmeno in grado di dare un nome, in mezzo a Mourinho e Rihanna che ridevano.
Ha fatto un paio di richieste, subito accontentate (i cori di chiesa Holden e un pezzo "amateurishly experimental" della Marcegaglia; abbiamo messo "Gratta e Vinci" e pare aver gradito), e alle tre passate, sulle note di “Blues For Brother George Jackson” suonata dai suoi (quasi)connazionali Wilco insieme ai Cugini di Campagna in lingerie blu (il colore dei Democratici), McCain ha lasciato il locale a bordo di un bus di pensionati tedeschi guidato da Grandmaster Flash.
Gli sta bene, è una persona orribile, finto eroe di una guerra in cui stava dalla parte sbagliata e si è pure fatto beccare con Belen alla CMJ Music Marathon.
A un certo punto sono arrivati da Roma M.I.A. e i Built to Spill e hanno cominciato a suonare Paper Planes e cose diversissime, dagli Orange Juice ai Let’s Wrestle, dai Passion Pit agli Oxford Collapse, di fronte ad un pubblico caldissimo e facilmente impressionabile, composto per la maggior parte da scugnizzi perduti di Camorra City, giovani di destra dell’isola Pound e dagli I’m From Barcelona che giocano al Nintendo DS sul tetto dell’Hana-bi.
Quello che succede, da questo momento in poi, lo potete solo immaginare.

Andreotti e la nonna di Obama, impegnata a smaltire la sbronza della sera prima, che ballano LIVE FAST! DIE OLD! di Munk feat. Asia Argento, pop a bassa fedeltà e alto coefficiente di urgenza, che spesso sconfina in una specie di infantile irrazionalità punk. Maradona a un certo punto strippa, va in completa trance agonistica e fa un massacro che anche Faccia di Pelle gli fa i complimenti, ricordando quando era giovine e faceva la corsa campestre, riuscendo con l’ultimo respiro a sussurrare “fammi una pompa Christian Bale“. San Giuseppe entra in campo nel secondo tempo e il Wild Bunch si salva, Charlie Sheen diventa il capo del mondo e spara a Colin Farrell ma per errore uccide Samuel L. Jackson, che abbandona il rock ‘n roll.
Il tuffatore di Paestum cavalca un’onda gigantesca fatta di vinili che si schianta sul sito degli AC/DC, Morissey cristallizza questo flusso, lo plasma in distici, giochi di parole, aforismi, guizzi introspettivi, una sapienza che ci rassicura,  una mischia di automi improvvisamente bloccatisi, capanne bruciate, sentieri ridotti ad un pantano dalla pioggia che arriva ad ondate dal cielo blu (il colore dei Democratici) e trasforma i crateri provocati dagli obici dell’artiglieria in enormi pozzanghere, Theo Parrish dopo 6 giorni in elicottero cade durante l’ultima volata dell’americana e si rompe il casco contro il cosidetto ‘Leccio mediceo’ dello storico Giardino del Discolimone. Un impatto tremendo. Roba che fa saltare per aria e io ne sono assolutamente felice.
Poi il discorso alla folla del Nord-Kivu: "Non siamo una collezione di individui. Non siamo il Congo di Michael Crichton! Siamo la Venerabile Italia! Niente cassa integrazione a chi non firma il contratto. Per quante borsette, scarpe, vestiti firmati, manicure, cottege sulla baia e case con campo da golf e colf, una donna possa avere… c’è un solo accessorio che la fa sentire veramente a posto: un maschio.
Dio non esiste, gli Americani si fanno gli attentati da soli e hanno tutto nelle mani i Rotschild, Rockfeller, Lindbergh ed altri che sono sconosciuti. Dormite tranquilli insomma. Noi che c’eravamo il nostro momento magico l’abbiamo già avuto. Al di fuori di qualche film di Bertolucci, durante le occupazioni non si batte chiodo, si dorme scomodi, ci si lava necessariamente come si può e ci si fa solo un mazzo tanto. Non si tratta di nostalgia del passato, di "far rivivere" il passato e cose del genere.
Questo è il passato, l’età dell’oro a tutto tondo, e suona oggi che è una meraviglia. Il fatto assurdo è che stiamo trovando altre date in posti che ci suggeriscono quelli che hanno visto il concerto, ahaha moriremo tutti… D’altronde, qualunque cosa accada, oramai non ci riguarda. Arrivare ad odiare le vecchie canzoni è il passo che serve per tornare nuovamente a chiudersi in studio e tirarne fuori altre".

Poi ne riparliamo, ma intanto cominciate a segnarvi la data: sabato prossimo, a Club To Club si riforma la storica coppia di “Happy Days”: Dell’Utri e Licio Gelli.

Così.

[tutto qui *******]

mercoledì, 05/11/2008

Intervallo

[Tetris Theme – Bottles version]

 

mercoledì, 05/11/2008

Yes we could

[da Joy of Tech di oggi]