vuelvo al sur

martedì, 09 03 2010

“Se abrieron las puertas del cielo que se escapó un ángel”

di

 

Non riesco a riempire il tempo che mi divide da un Darín pomeridiano su piccolo schermo, occhi a fessura stretta azzurra e qualche latina -sempre coi capelli lunghi- da quello di “Nueve Reinas”, “El Aura” (uh, Bielinsky) o “El Hijo de la Novia” (ancora Campanella alla sua prima nomination).
Il saluto a Retiro non mi emoziona poi tanto e mi infastidisce un poco, forse perché ora non credo che l’amore abbia molto a che vedere con lo struggersi per lo mezzo di un finestrino da treno, piuttosto con il continuo provocare di lei, o con quel –questa volta sì- romanticissimo modo di proteggersi e andare avanti, bilaterale e molto parallelo. Un po’ più vero di un paio di mani, immagini speculari non sovrapponibili, su un vetro appannato.
Lui scrive solo pezzi delle parole e lei aspetta, scadendo le proprie emozioni chiudendo e aprendo sempre la stessa porta. Bello, d’ora in avanti me ne porterò sempre appresso anche io una in legno.
Si fatica a definirne il genere, è drammatico, è thriller, è commedia, è un gran bel minestrone. Dopo un quarto d’ora inizi a renderti conto di quanto l’umorismo porteño possa divenire arrogante. Un po’ ridi, un po’ strozzeresti te ed i tuoi parenti stretti.
E siccome la storia inizia nei settanta ti pareva che non ci scappava pure la brutale ascesa sociale come bestia da regime? Sembra un po’ la risposta a quella non discussione che abbiamo avuto ad agosto, iniziata chiedendoci se in certi registi (io avevo appena deciso di non vedere più “Cordero de Dios” di Cedrón) i riferimenti alla dittatura nascessero da necessità vitale più che da sceneggiatura su carta.
La storia è corposa. Benjamín è in pensione, vuol fare lo scrittore, riapre –ovvio, senza aver mai chiuso davvero- il vecchio caso che di lui ne fa sempre tormento e finisce per rimettere insieme i frammenti di venticinque anni di vita e Argentina. È come tornare a casa e trovare niente cambiato.
Non che sia tutto un bene, eh.
Quelli di baires che si sentono sempre migliori di tutti, il lunfardo che sfiata da tutte le bocche ed il calcio che persino nelle lettere alla mamma riesce a chiudere il cerchio.
Francella lo adori nonostante non ti sorprenda nemmeno un po’ in quel ruolo. Racconta di amicizia da tutti i giorni, fatta di foto rovesciate e debolezze. Ti commuove la grandezza della recitazione di tutti, nessuno escluso, chi è trattenuto lo è per copione. Ti cattura anche ora, che "El Secreto de sus Ojos" neppure lo vedi, ma quasi lo riascolti solo.
Esistono ancora scene come quella enorme sopra-dal-sul-dentro del campo di pallone che ha la forza prima di sovrastare e poi di penetrare ogni cosa. E c’è un ascensore che cigola, un petto in una camicetta che ansima pesante, una pistola e nessuna parola.
Insomma, cadena perpetua un po’ per tutti.

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lunedì, 25 05 2009

“Dovremmo smettere di leggere libri di ebrei”

di

Il tavolo era tondo, di legno chiaro e con troppe mani di vernice. Erano in tre e undici anni tutte.
Valeria, scura di capelli, di occhi e di pelle, denti dritti e bianchissimi. Medaglia della Virgen de Luján regolarmente al collo. Ad essere un po’ stronza l’avresti apostrofata come la tipica india sudamericana. La tua migliore amica, avresti potuto permettertelo.
Iliana, capelli castani e occhi marroni, denti altrettanto dritti, un po’ meno bianchi e congenitamente altezzosa, in Argentina ti avrebbe dato sempre quell’impressione di oligarchia latente, in Spagna sarebbe diventata un’Arantxa qualunque, con un bel paio di orecchini di perle e i colpi di sole freschi di parrucchiere.
La terza si chiamava come non avrebbe dovuto, portava l’apparecchio ai denti -l’ortodonzia andava fortissima- e descrive.
Tutte perdutamente innamorate del loro compagno di classe. Leandro era bruno, con le lentiggini ed il Bar Mitzvah in cantiere. E infatti la questione era tutta lì, discutere del fatto che a sposarti un ebreo molto probabilmente saresti dovuta diventare ebrea anche tu. ‘Sai, la sua famiglia..’ esponeva seria la padroncina di casa. Era l’ottantasette, al governo c’era Alfonsín e la dittatura era finita.

Cover_GRANathan Englander è un ebreo con il naso parecchio grosso, nato nel 1970 a New York ed Il Ministero dei Casi Speciali è il suo secondo libro e primo romanzo. La storia è quella nota del desaparecido. Non è l’informe della CONADEP, non è Il Volo di Verbitsky eppure risulta sia sobrio che coinvolgente. È un romanzo e ripeterselo ogni tanto mentre si legge fa più bene -o meno male-.
Una famiglia ebrea ripudiata dagli stessi ebrei con un figlio ventenne nel 1976 a Buenos Aires, di come si possa violare un’identità in tanti tristi conosciuti modi diversi.
Ottima l’idea di introdurre la chirurgia estetica come mezzo per smettere di essere visibilmente quello che si è: ebrei dal naso enorme come la propria Storia. Ottima l’idea del mestiere paterno: incidere lapidi non per scolpire nomi ma per strappare dai vivi i morti, diventati carico inaccettabile nella Comunità in continua visione di repulisti.
S’incontrano molti personaggi di quegli anni, il generale con il bambino rubato e la moglie cinica e ricca, il vicino spaventato, chi acconsente e chiude gli occhi, l’ambigua figura clericale e il pentito –educato all’ESMA– dei voli nel Río de le Plata e ovunque tutta quella burocrazia implementata ai limiti della ratio.
Dimostrare la tua esistenza una volta scomparso è la parte più difficile, sei senza documenti, non risulti detenuto e i tizi che hanno bussato alla tua porta, quella porta che ti ha regalato tua mamma per salvarti, sono senza divisa e viaggiano in Ford Falcon. Una famiglia che si rompe ed i pezzi finiscono sui lati opposti del tuo piano bidimensionale per gli urti anelastici. Efficace e cattivissima l’idea delle ossa.
Tutto qui ruota intorno al sistema solare dell’essere. Chi sei per i tuoi genitori, per i tuoi amici in rubrica e per lei, che verrà dopo di te nella tua cella e mangerà i tuoi pensieri provando a salvarti, ringraziandoti della civiltà con cui le hai regalato il tuo nome.
E conta tantissimo la pacatezza di certe immagini e l’ironia di rapporti familiari -normalmente difettosi- prima di coprire lo specchio.
   

“La prima linea di difesa per un sistema corrotto e disfunzionale è mettere un ignorante di guardia alla porta.”