arbiter elegantiarum

martedì, 10 01 2012

Il vostro tumblr preferito della giornata

E' Accidental Chinese Hipsters.

 

 

 

 

 

 

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giovedì, 12 05 2011

Quasi me ne dimenticavo

Mi stavo quasi dimenticando di postare la fonte da cui ho tratto il giochino dei tagli di capelli dei musicisti con cui vi siete intrattenuti una settimana fa.
La fonte è un bel poster di Pop Chart Lab, che si può anche acquistare per modici 25$. Come noterete, i personaggi erano troppi per entrare tutti nello schermo, quindi io ne ho incluso solo una parte. Clicca qui per la versione ingrandita in cui riuscire a leggere qualcosa.

 

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giovedì, 05 05 2011

Sai riconoscere un musicista dal suo taglio di capelli?

Ecco un altro di quei giochini che piacciono molto a me e, se non ricordo male, anche a voi: riuscite a riconoscere ciascuno di questi musicisti pop e rock dal suo taglio di capelli (e da barba e/o baffi)?

[per tutto il tempo che vi farà perdere ringraziate ilDottorGola che mi ha mandato il link]

 

[Nei prossimi giorni poi posterò la soluzione e il link da cui proviene l'immagine. Se qualcuno lo scova please non postatelo]

sabato, 16 04 2011

Today’s Record Store Day (lalalalalà lalà etc)

 

 

C’erano una volta i vinili di mio padre […]. Quelli che quando posizionavi la puntina sul primo solco, il cuore ti batteva fortissimo nelle orecchie e aspettavi quel rumore inconfondibile, quel fruscio affascinante che ti lasciava con il fiato sospeso per qualche frazione di secondo.

 

Sabato sarà una festa memorabile per coloro che amano dire: “il giradischi ha un suono caldo e corposo” […] Poi arriveranno quelli de “L’ODORE DELLA CARTA!” e si accorgeranno di aver sbagliato giornata.

 

Il testamento di Kurt Cobain, morto qualche mese prima, era nelle mie mani. Lo portai a casa, lo scartai e venni invaso dall'odore di carta del libretto, ruvido, composto da foto e illustrazioni con i colori saturi, che stridevano con la tristezza del disco.
Lo annuso sempre, quel cd e, credetemi, l'odore di carta c'è ancora, solo un po' affievolito dagli anni.

 

Corro a casa col sorrisone stampato in faccia e tiro fuori il disco. Puzza. Diobono, mamma, senti che puzza, accidenti, ecco perché costava meno. Mia madre prende il disco e ride. Non è puzza, è patchouli, si vede che a Madonna piace il patchouli.

 


All’odore del vinile ho rinunciato da tempo.

 

“Devi scrivere un pezzo su Disfunzioni? Fantastico, scrivi dell’atmosfera, dell’odore…”

“Quale odore, scusa?”

“Quello dei vinili…”

Se la mia non è stata la generazione più inutile della storia, poco ci manca.

 

 

Captatio

 

Questo post parla del Record Store Day 2011, che è oggi. È nato da una cortese richiesta collettiva del piccolo Franci per Vitaminic, e avrebbe dovuto essere scritto ieri. Quando ancora, nella mia testa, era una cosa breve e piacevole. Però ieri dovevo fare altre cose, poi cucinare, poi sono venuti a casa Thom Yorke e Walter Veltroni, abbiamo discusso molto dell’argomento, ed è diventata questa specie di mastodontico romanzo di formazione che mi ha preso più tempo del previsto – però ho evitato la deriva marxista cui inizialmente continuavo a tendere. Le citazioni sono più o meno decontestualizzate, e comunque ridotte ai minimi termini; sono una piccolissima parte dell’enorme mole di post prodotti in questi giorni e non sono state scelte in base al gradimento (ho omesso molte cose che ho trovato stupende), ma solo per la loro pertinenza con quanto segue. Le potete ritrovare per intero nei riepiloghi giornalieri di questa settimana di post a tema RSD, sempre su Vitaminic, che vi consiglio sinceramente di leggere. Inoltre, se fate caso al nome dell’autore, lì in alto, vedrete che non è inkiostro. Sono io. Il signor blueblanket. Alcuni di voi sanno cosa significa: un monologo chilometrico, in parte vero in parte no, pieno così di link. Per gli altri, buona giornata. Io vi ho avvisato.

 

 

Un negozio di dischi è un luogo antropico a metà fra un parco dei divertimenti e il salotto dell’analista che desideri avere e che non puoi permetterti.

 

Bettole impolverate nascoste in viette sperdute, dischi ammassati come cassette di arance, commessi ultra quarantenni con lo sguardo basso che non dicono neanche "ciao" quando entri. […] Zero promozione, zero eventi, zero innovazione, zero volontà di farcela e di reinventarsi.

 

Perché nel buco di culo di mondo in cui sono cresciuto i negozi di dischi erano questo: impresentabili.

 

 

Secondo me per certe cose è sottovalutato, lo scotto della provincia (e bisogna anche vedere quale provincia). Ovvero, chi non ci ha vissuto certe cose è abituato a darle per scontate.

Io sono stato destinato dal Fato alla più anonima periferia della provincia laziale. Negozi di dischi: due o tre. Decenti: nessuno.

Il negozio di dischi cui avevo giocoforza deciso di appoggiarmi ha un nome futuribile ed esiste tuttora. Il proprietario, un tipo sulla quarantina coi capelli rasati ed una smorfia fissa sul viso, dava l’impressione di essere uno che come partito più a sinistra aveva votato la DC, a malincuore.

La sua competenza si estendeva in un arco oggettivamente piuttosto ampio e apprezzabile, che copriva, se ben ricordo, il peggio pop italiano, diversi tipi di dance, una discreta quantità di progressive ed un buon mazzetto di metal.

Io in quel negozio c’ero capitato la prima volta per caso, ma poi ci avevo comprato cassette destinate ad essere ascoltate (da me) più di quanto il buonsenso non suggerisca (gli 883; ma anche: Zucchero. Ma anche: Massimo di Cataldo. Etc.).

Non me ne vergogno, o non quanto dovrei; ci ho messo degli anni, per farmi una cultura musicale, ed ogni cosa è stata una mia piccola conquista. Vivevo in provincia, sono il primogenito (niente fratelli maggiori a suggerire nulla), mio padre ascoltava moltissima musica ma non me ne ha parlato per anni (suppongo perché scioccato da Zucchero; in compenso mi ha inflitto, sempre per anni, Paolo Conte in macchina, prima che io acquisissi finalmente la facoltà di intendere e di volere e potessi essergliene eternamente grato, come sono ora). Ero un sociopatico, molto più di adesso, e i miei pochi amici ascoltavano musica orribile o cantautori italiani (su cui in effetti ero più che preparato anche all’epoca).

Fino quindi ad un’età in cui il mio attuale coinquilino decideva di smettere per sempre di ascoltare i Beatles (troppo pop) e la mia coinquilina si dava anima e corpo ad un proto-punk vissuto con insolita moderazione dei costumi (la mia coinquilina è una punk ossimorica), io ho ascoltato prevalentemente robaccia. Avrei potuto continuare così ed avrei vissuto una vita felice, suppongo, e piena senz’altro di argomenti di conversazione con l’enorme Paesotto Reale che ti circonda in provincia.

 

 

Negozi del genere campano in parte sui clienti abitudinari (che diminuiscono anno dopo anno), in parte sul pubblico digitalmente analfabetizzato che, con la scomparsa dei cd pirata venduti in strada, è tornato a comprare dischi da sentire sull'impianto stereo della loro macchina, (rigorosamente privo di lettore MP3), e in parte sulle ragazzine che vanno a comprare il disco del loro idolo adolescenziale del momento.

 

Nessun negoziante mentore mi ha introdotto alla scoperta di band che hanno rivoluzionato la mia formazione, nessun esercente dai gusti articolati ha messo su un cd che mi ha fatto appizzare le orecchie. Come è possibile? […] La realtà di fatto è che nella mia adolescenza i negozi di dischi si dividevano in due categorie: quelli coi greatest hits di Celine Dion, e quelli in cui il gestore ti teneva d’occhio perché non ti inculassi i cd. Che poi, incularti cosa, se esposte c’erano solo le custodie vuote?

 

 

Se ciò non è accaduto, lo devo quasi esclusivamente ad un amico e collega di papà. Di lui ricorderò sempre con cifre probabilmente lontane dal vero la mole smisurata di cd che comprava ogni mese. Per corrispondenza, importati direttamente.

Era ed è una persona piuttosto schiva, e molto raramente me li consigliava, i dischi. Più spesso lo infastidivo io, chiedendogli se avesse questo o quel cd di gruppi di cui avevo sentito solo una canzone, per caso, su Tmc2. Che, sì, quand’ero piccolo io, da me MTV mica prendeva.

Lui mi prestava il cd, che spesso con mio sommo stupore suonava enormemente diverso dal singolo che già conoscevo, e ce ne aggiungeva uno o due di gruppi simili, che secondo lui mi sarebbero potuti piacere. È merito suo, e solo suo, se io ho potuto ascoltare i Pixies, i Pavement, gli Eels, Liz Phair, i Delgados, Beck. Cito a caso i primi nomi che mi vengono in mente, quelli che all’epoca smossero di più la mia idea di musica. Ricordo che nel ’98 fece qualche mixtape (ho un momentaneo lapsus sul termine italiano) a mio padre, che io rubai, chiaramente, da subito. C’era Chocolate Genius, più canzoni di quell’album favoloso; c’era, mi pare, Elvis Costello. E un sacco d’altra roba.

Della volta in cui mi mise su Novocaine For the Soul e dal suo preamplificatore a valvole partì il suono (campionato) di un vinile che fruscia non posso parlare, o sembrerei patetico. Però è successo, ed è una cosa che davvero mi ha cambiato la vita.

 

 

Ecco la cosa bella era che il comprare un disco, il farselo consigliare era una cosa di un “social” infinitamente più grande di qualsiasi altro social network dei giorni nostri.

 

Ai tempi io non avevo internet e per me l’informazione musicale arrivava unicamente dalle persone che conoscevo a scuola. Quindi andavo al Musicland e passavo gli espositori, chiedendo consigli e pareri. Era divertente.

 

 

Nel frattempo avevo iniziato a leggere il Mucchio (sempre su consiglio, o per emulazione, del mentore di cui sopra), e sulla base del Mucchio, cercando di non logorare oltremodo la pazienza del sant’uomo, andavo al negozio musicale sovradescritto. Nel ’98, mi ricordo, ero rimasto sconvolto da Last Stop: This Town. Avevo provato a chiedere in prestito il cd al Guru, ma l’aveva già prestato. Così mi feci forza ed andai dal signor Negoziodalnomefuturibile.

Gli Eels, gli dissi. E glielo scrissi. Contemporaneamente. Non nutrivo enormi speranze. Electro-shock Blues. Me lo cerca?

La trafila che si era stabilita da un po’ è che io gli chiedevo roba che lui, normalmente, non aveva. Lui andava a Roma, la comprava, amo pensare, clamorosamente sottocosto (spesso erano cd usciti anni prima, iniziavo a tentare di tappare buchi che ancora oggi ho) e me la rivendeva a prezzo politico: trentotto mila lire. Poi quaranta. Poi quarantadue.

Per gli Eels fu un po’ più complicato. Dopo tre settimane affermò di non averlo trovato. Poi che doveva arrivare. Poi che non c’era.

Lo ottenni dopo un paio di mesi d’insistenza, ma qualcosa si era incrinato.

Contemporaneamente, l’internet dei 56 kb e dell’inquietante rumore di composizione del modem stava conoscendo una delle sue più significative rivoluzioni. Si stava diffondendo Napster.

Io da Napster non mi procuravo solo musica. Ci chattavo, mettendo alla prova il mio inglese buono ma scolastico di 16-17enne (e non solo: una volta un fan dei Mambassa mi mise sotto processo perché avevo tra i miei file Se dei Naftalina. Ti piace la musica semplice, disse con un marcato tono dispregiativo, prima di un’accesa reprimenda. Da quel giorno cominciai a giustificare i file meno decenti affermando “sono di mia sorella minore”). Ricordo ancora con un certo senso di vergogna una volta che volevo dire “mi sento stupido” e dissi “I feel dump”. Dump, chiese il mio dirimpettaio, un pignolo rompicoglioni di qualche parte dell’America. Yes, dissi io, dopo una corsa a prendere il vocabolario monolingue che tuttora mi vuol bene (bene reciproco). You know, a heap of rubbish (il fatto che dopo anni ricordi l’esatto scambio di battute dovrebbe misurare la quantità di vergogna che provai, esattamente, a posteriori). Lui abbandonò la conversazione.

Un americano più paziente, però, un pomeriggio mi disse di segnarmi tre nomi che mi sarebbero certamente piaciuti. Erano i Belle & Sebastian, i Modest Mouse ed i Neutral Milk Hotel.

 

 

Ovunque mi trovo, anche adesso, un giro in un negozio del genere rappresenta una tappa obbligata. Tanto lo so che poi “succede qualcosa”. E succede sempre.


Questa introduzione non serve a nulla se non a specificare il fattore della casualità. Entrare in un negozio di dischi e imbattersi in qualcosa che non fa altro che metterti curiosità e voglia di scommettere con te stesso: “Va bene, lo compro. Mi piacerà? Chissà. E se poi mi fa schifo? Ho solo buttato dieci euro ma ho comunque conosciuto qualcosa a cui forse non sarei mai arrivato.”

 

 

I Belle & Sebastian li avevo trovati per caso a Roma qualche mese prima, in una delle ore libere durante una gita (non andavo a Roma altrimenti: dal mio fazzoletto di provincia sono due ore e passa di pullman fino all’Anagnina, ed io ero molto pigro già all’epoca). Avevo trovato quel disco da Messaggerie Musicali – o almeno credo fosse MM. Ricordo che non avevo mai visto niente di così smisurato dedicato unicamente ai dischi; che c’era la possibilità di ascoltarne alcuni, evento che mi pareva inverosimile, e che sentivo che dovevo sanzionare la cosa in qualche modo compatibile col mio ristretto budget. Dei Belle & Sebastian avevo letto sul Mucchio, anche se non ricordavo bene a che proposito. La copertina era bella e il disco, a metà prezzo, lo comprai e lo ascoltai mezza volta, e non mi impressionò positivamente. Lo accantonai in un angolo dove rimase fino alla conversazione col giovane americano su Napster. Quindi, sentii per la prima volta, seriamente, If You’re Feeling Sinister. E.

Poco dopo, piccola città di provincia vide l’apertura di un nuovo negozio di dischi. Aveva una sezione di dischi usati, e questa era una cosa sconcertante in sé, ed anche se pagava la location con un’amplissima sezione metal aveva dischi che non avrei mai pensato di avere sottomano senza attendere il viaggio a Roma di Negoziante.

Soprattutto, aveva buona parte del catalogo Homesleep.

Di come l’ascolto ripetut(issim)o di Rise And Fall Of Academic Drifting abbia portato anni dopo all’incontro, per me infelice, con JR ho già detto altre volte (troppe) in sedi differenti, ma si sappia che la colpa è del Caso e della follia che aveva convinto quelle tre deliziose persone ad aprire un negozio così in mezzo al nulla. Chiuse in due o tre anni, ça va sans dire.

 

 

Insomma, avevo un sacco di cassette duplicate dagli amici di straforo, e quasi niente di originale.

 

Erano belli i tempi in cui ero piccolo io ed i cd si noleggiavano. Non c'erano nemmeno i masterizzatori (anzi no c'erano ma costavano cifre esorbitanti, e poi tanto il pc in casa non ce l'aveva praticamente nessuno, figuriamoci il masterizzatore – l'unico che io ricordi fortunato possessore di un masterizzatore era un mio amico che noleggiava i cd, li masterizzava e poi rivendeva le copie, ma ha dovuto smettere dopo che gli hanno bucato le gomme della macchina) e si passava tutto su musicassetta, resa sonora incerta ma almeno potevi continuare ad ascoltare anche dopo aver restituito il cd ed andava più che bene.

 

 

Io però nel frattempo avevo finito il liceo e mi ero spostato a Bologna.

In breve tempo ebbi modo di scoprire due cose ugualmente inverosimili: Bologna non aveva solo una biblioteca (paesello, all’epoca, non l’aveva ancora, o era in ristrutturazione perenne – parlo del 2002, non di epoche precedenti all’invenzione della stampa). E in quella biblioteca c’era una sezione di cd. Enorme.

Devo saltare, anche qui, il pesantissimo resoconto della prima (e unica, temo, finora) volta in cui ho stretto il Sussidiario fra le dita. Posso dire che ero sinceramente emozionato, e che già non si riversavano più i cd su cassetta, ma si estraevano i file sul pc.

Così, quando il coinquilino mi parlò della Phonoteca, cui già ero passato davanti un po’ di volte, rimuginando su cosa fosse (entrarci e chiedere mi pareva brutto), fu, comprensibilmente, l’ennesimo nuovo inizio per le nostre grame finanze da universitari fuori sede.

Mi sorprende il fatto che, se provo a concentrarmi, non mi viene in mente quali cd abbia preso in prestito lì. Credo fossimo, io e il coinquilino, perlomeno in fase post-rock. Ma non sarei pronto a giurarlo, e del resto non è un dato fondamentale.

Poco dopo, e siamo nel 2003, cominciai a leggere, oltre alle riviste, Ondarock e Scaruffi un paio di blog che parlavano di musica: Polaroid ed Inkiostro. Da lì iniziai a leggerne molti di più, fino alla malsana idea di scriverne uno, poi fortunatamente chiuso per manifesta inutilità. Un anno dopo, in un clamoroso impeto di socialità, decisi di attaccare bottone con una ragazza su un autobus diretto verso l’Estragon (concerto – ed elogio dei latticini – di Damien Rice), che avrei incontrato di nuovo la settimana successiva andando al Covo, e senza la cui esistenza oggi la mia vita, per una serie di buffe e fortunose coincidenze, non sarebbe neanche lontanamente simile a quella che è (e no, non siamo mai stati insieme)(spiace, eh. Sarebbe stato un bel twist, così fa davvero troppo Brizzi).

 

 

Ho comperato degli album tramite servizi online ma non me li sono mai goduti pienamente. ho ricomprato gli stessi titoli su cd e me li sono gustati meglio. niente cagate tipo “l’mp3 degrada la qualità audio” o cose simili, è proprio un feticismo verso l’oggetto disco/cd/cassetta.

 

Voglio vederli, i miei dischi. Voglio accumularli in pile traballanti, di fianco a divano, per poi metterli su seguendo sentieri di passioni e ricordi. Perché dovrebbe essere meglio avere dei fantasmini digitali, sperduti nel computer?


L’impulso che muove all’acquisto è il desiderio
e non il bisogno. […] voglio il supporto, voglio il vinile, ma di fatto la musica e il supporto su cui viene registrata (e venduta) sono due cose separate. Voglio il supporto fisico anche se non ne avrei bisogno! […]Quello che devi chiederti è: quanto sono disposto a pagare per il valore aggiunto di cui sopra?

 

Il supporto è solo il supporto e alle volte – per questioni connesse a quell’innato bisogno di poesia e di possesso materiale che ci distingue dagli automi – può essere irrinunciabile.

 

La musica è il medium che, più di ogni altro, non risente dell'abbandono del supporto fisico.
E non venitemi a dire che un cd si sente meglio di un file digitale. La qualità del file digitale dipende dalla compressione e la rete mi permette di trovare file non compressi che hanno una resa audio superiore a quella dei cd. Fermo restando che io, comunque, non ho un impianto in grado di valorizzare questo aspetto (e dubito che ce l'abbia la maggior parte di voi) e non ho l'orecchio abbastanza affinato per capire appieno la differenza di qualità.

 

 

Non continuerò con l’aneddotica, anche perché ho l’impressione che qualsiasi potenziale lettore sia già stramazzato al suolo esanime. Se qualcuno fosse sopravvissuto, penso sia chiaro il punto a cui miravo: i negozi di dischi non sono l’unica via per conoscere ed amare la musica, né la migliore.

Io i negozi, specie quelli piccoli, li ho sempre frequentati poco. Sono sempre stato troppo timido per parlare con i commessi, senza contare che, ora che ci penso, per un paio d’anni ha lavorato come commessa alla Ricordi una mia amica bella di una bellezza imbarazzante, con cui per anni ho sognato invano di farmi avanti e che tampinavo farfugliando da piccolo stalker in erba. Tanto sarebbe stato un fallimento clamoroso. Ma dicevo?

Ah, sì. Io i negozi, specie quelli piccoli, li ho sempre considerati un fastidio, in provincia, per la maggiorazione economica e cronologica su ogni singolo cd che esulasse dal ristrettissimo catalogo posseduto, e un percorso obbligato, a Bologna, per acquistare i dischi. Non ho mai avuto con nessun negozio/negoziante nessun rapporto di confidenza, di amicizia, di mutua dipendenza. Il paragone di Enzo con il Bar Sport si sovrappone ad un’immagine che mi era già venuta in mente: nel Bar Sport, le paste, fanno schifo (come il vino all’etanolo che ti offrono i vecchi sottolineando che è fatto in casa: è velenoso, quel vino). E la mitizzazione del romanticismo a scapito della convenienza (o della qualità, a seconda dell’esempio) non mi ha mai convinto del tutto.

I consigli, le discussioni, le scoperte su un disco, le ho sempre fatte o lette altrove: davanti a una birra con gli amici, leggendo forum su internet, leggendo blog e webzine, leggendo giornali, leggendo giornali mentre si beve una birra con un blogger che nel frattempo sta controllando internet (come se fosse uno scenario inverosimile). E oggi sui socialcosi, come chiunque utilizzi internet con un minimo sindacale di dimestichezza.

Quando ho avuto la possibilità di acquistare lo stesso cd ad un prezzo minore da Ricordi, o alla Virgin, o da Nannucci, che piccolo non era, piuttosto che da Disco d'oro o da Underground, da quando c’è la possibilità di farlo su internet ad un prezzo spesso enormemente più basso del prezzo del piccolo negozio, io l’ho fatto. Perché i miei principi più idealistici, temo, non valevano i soldi del mio pranzo (pranzo a cui rinunciavo comunque se volevo comprare chilate di cd, libri e dvd E uscire la sera). Potevo comprare di meno, ma comprare meglio? Probabilmente sì; ma non l’ho fatto, e non sono sicuro di rimpiangerlo.

E non prendiamoci in giro: la possibilità di procurarsi musica gratuitamente, in maniera legale o meno, è una rivoluzione dei costumi con cui tutti ci siamo confrontati, a cui tutti ci siamo abituati. Persino i Metallica si sono messi l’anima in pace.

 

 

Sono tornato in questo vecchio negozio per ritrovare la magia del comprare i dischi "veri" ma l'unica verità è che non c'è nessuna magia. Non c'è mai stata. Era solo una mancanza di scelta che ha generato un'abitudine a cui ho legato dei ricordi piacevoli perché connessi alla scoperta e all'ascolto della musica. Il piacere non è mai derivato dall'oggetto ma dal contenuto.


Oppure ecco, prendo molte copie digitali di valutazione (ehm, scaric… coff) ma poi compro anche tanto. Colpevolmente via internet? Oddio, fosse per me comprerei anche la benzina via internet. Oppure finisco a comprare molto più all'estero sto notando: principalmente per il prezzo.


Da svariati anni il 95% dei dischi che entrano in casa mia sono portati da un postino o da un corriere. […] Perchè praticamente non ci sono più negozi di dischi decenti a Verona e dintorni! […]Il Male è la Fnac, che ha fatto chiudere praticamente tutti i negozi di Verona facendo dei prezzi incredibili nei primi due anni di vita (novità a 11/12 euro, offertacce a 6 euro; credo di aver comprato più dischi in quei due anni che in tutta la mia vita, se parliamo di acquisti effettuati in negozio).


Cercate di dimenticare per un attimo quello a cui siete abituati, e pensateci: un bene immateriale come la musica è fatto apposta per essere acquistato online, anche per chi come noi non può fare a meno dell’oggetto disco. E’ la piattaforma più completa per avere un assaggio di cosa si sta acquistando, prezzi onesti che tagliano le intermediazioni inutili, disponibilità illimitata che rispecchia la sempre più sterminata produzione discografica.

 


Con questo non voglio affermare che sia meglio così. Le sterminate discografie ascoltate solo per un decimo, i dischi sentiti mezza volta distrattamente, per motivi analoghi e paralleli l’inaffrontabile offerta di album potenzialmente interessanti sono tare negative dello stesso sistema, risvolti della medaglia.

Ed il minimo che una persona pragmatica e consapevole può fare è comprare, se non tutta la musica potenzialmente interessante, almeno quella che gradisce davvero e che ha già apprezzato: su internet, in un negozio di una qualsiasi dimensione, ai banchetti dopo i concerti. Che se gli artisti dovessero solo perderci denaro, con quello che fanno (e la stragrande maggioranza ci va sì e no in pari, con i frutti del proprio lavoro intellettuale), sarebbe difficile capire cosa li convinca a continuare.

I piccoli negozi di dischi sono posti suggestivi, spesso tenute da persone deliziose, sinceramente appassionate al loro mestiere. Però soffrono una crisi strutturale dovuta all’impietoso avanzare della tecnologia, e (dio mi perdoni la demagogia) non mi pare esista la giornata del calzolaio.

Per difendere questa suggestione, legata a doppio filo ad uno dei lati più feticistici, ma contemporaneamente più irrazionalmente irresistibili, che un appassionato di musica possa avere – cioè il bisogno di un supporto fisico, ottenuto da una persona fisica, possibilmente in circostanze che creino quel senso di condivisione d’élite proprio di ogni piccolo gruppo ed accrescano il valore immateriale di quell’oggetto che si sta comprando (e magari regalino anche degli aneddoti, perché chi vive di musica vive d’emozioni e generalmente li adora, gli aneddoti) -, oggi si festeggia il Record Store Day.

In molti negozi di dischi si tengono concerti e showcase vari, si vendono uscite speciali e ristampe (elenchi qui e qui). È comunque una cosa bella: la festa della mamma non salvaguardia il ruolo della mamma né ne cambia lo status, ma a lei fa piacere che io le faccia gli auguri ed io mi sento più contento (e mia madre non stampa edizioni limitate).

Approfittatene, se vi va.

 

 

Il fatto è che andare a cercare negli scaffali polverosi di cd o vinili […] ci ha fatto, e continua, a farci stare bene. E solo per questo che continuiamo a farlo.

 

I dischi e gli strumenti musicali erano gli unici modi per fare l’amore con la musica. Ripeto: un rapporto carnale, vero e tangibile. Quando provi questa intima passione è impossibile che tu riesca a liberartene.

Il nuovo non esiste, è solo la forma più mascherata della nostalgia dei clienti, né io negherò il loro diritto inalienabile alla nostalgia. Però non sono un cliente. E’ da ben prima di lavorare qui che non compro musica, e continuerò a non comprarla dopo che avrò finito di lavorare qui.

 

Signori, è finita, ma è stato un onore servire per voi.

 

 

P.S.

Ci sono tre belle interviste ed una non-intervista sull’argomento: Enzo con il titolare di Play Loud, Paolo con Alessandro Gallicchio del Black Candy Store, Giulia con Marco di Nordovest e Federico. Dopo un post in cui sono riuscito a non citare Alta Fedeltà, gli Offlaga di Tono Metallico Standard e L’ultimo disco dei Mohicani (ricordato persino da Repubblica, wow) il minimo mi sembra segnalare un libro sui negozi di dischi indipendenti per Arcana ed il fatto che Letizia Bognanni mette in free download il suo, di argomento affine, qui. Voleste altri media, qui (scoperto via mytaperecorder) c’è il trailer di un film che pare interessante, qui il reportage esclusivo per Vitaminic opera dell’insonnia del beneamatissimo Daniele Piovino e qui l’odierna colonna sonora a tema proposta dai 400 calci.

sabato, 15 01 2011

Hipster Shore

GENIO!

So we're in this house and we're supposed to be making friends…but…that's so unoriginal.

[via]

 

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giovedì, 11 11 2010

Ed è giunto il momento di postare la soluzione

Speravo che sareste riusciti a completare il quiz di abbigliamento musicale che ho postato venerdì scorso, ma nonostante i vostri sforzi e la bravura del DottorGola e di foz vi è mancato un nome per completare il lotto (per la cronaca: era Chet Baker. Quasi impossibile, lo so). Ecco l'immagine completa (che -in basso, molto in piccolo- mostra anche i nomi, che ho poi ri-scritto sotto) e il link a cui potete leggere i dettagli, acquistare il poster e vedere in grande la mise di ciascun musicista (che è a sua volta un poster). C'eravate quasi.

 

 

 

Jim Morrison, Johnny Cash, Kurt Cobain, Kiss,

Chet Baker, Michael Jackson, Run DMC, Jimi Hendrix, 

Bob Dylan, Elvis Presley, Prince, Kanye West,

Marvin Gaye, The Ramones, Andre3000, Pharell Williams,

Brandon Flowers, Pete Doherty, The Beatles, Miles Davis.

venerdì, 05 11 2010

Sai riconoscere un musicista dal suo look?

Una specie di giochino per il sabato pomeriggio: ciascuno di questi look appartiene a un famoso musicista? Riuscite a riconoscerli tutti?

 

[Nei prossimi giorni poi posterò la soluzione e il link da cui proviene l'immagine. Se qualcuno lo scova please non postatelo]

mercoledì, 20 10 2010

Cosa c’è di più geek di postare due infografiche in un giorno?

E’ ovvio: ridere per le definizioni, i disegni e la presenza dello Steve Urkel Ubergeek, del Glee geek e dei contrapposti Star Wars e Star Trek geek.
The Evolution of the geek, da Flowtown.

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martedì, 27 07 2010

IKEA sexy FAIL

Ikea bikini summer clothing line, da Ikea Hacker. Il mio commento è riassumibile in «Ma anche no».

(via)

mercoledì, 05 05 2010

From hipster to hippie

[da Keep off the grass, via Hipster Runoff]

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giovedì, 11 02 2010

Papa papa Ratzi

Di Ratzinger Hats non si può davvero dire niente. L’esistenza stessa di un sito del genere è più eloquente di mille parole.

(grazie grazie grazie a Dr. Shoum)

 

mercoledì, 09 12 2009

The Evolution of the hipster

[Clicca sull'immagine per ingrandire]

 

Un paio di settimane fa citavamo Paste Magazine e le sue classifiche con il meglio di fine decennio. E dall'ultimo numero di Paste viene questo ritratto dell'evoluzione dell'hipster, che dall'emo di inizio millennio, passando per lo scenester, il twee, il montanaro, la vintage queen e il Williamsburghese fino al recentissimo meta-nerd, tenta di descrivere fasi e tipologie di una subcultura che non esiste.   

E' ovvio che vederle come fasi successive e così cronologicamente connotate è un mero pretesto per emulare il celebre e pluri-parodizzato grafico dell'evoluzione, ed è anche ovvio che il giochetto delle descrizioni brevi e ironiche funziona solo fino a un certo punto (e presta il fianco a tutte le ironiche prese per il culo del caso); però provate a fingere di non conoscere gente che ricade a puntino in uno stereotipo o nell'altro, se ci riuscite. E a fingere di non esserci caduti anche voi, almeno qualche volta…

giovedì, 12 11 2009

Non saremo mai come ci volete voi

Oggi, come ogni 12 novembre, è lo Zuava Day.

venerdì, 30 10 2009

OUTfeet

di

Jimmy Choo è un po’ il fratello meno famoso tra due che fanno gli attori.
L’altro, inutile dirlo, sarebbe Manolo Blahnik.
Il palcoscenico di tutti i mali la sempre verde Sex&TheCity.
Jimmy Choo disegna per H&M una collezione disponibile a partire dal 14 Novembre in soli 200 negozi.
Tipo che se abiti a Torino ti attacchi.
Tipo che sei vuoi essere tra le prime a poter accedere alle “zone predisposte” c’era, non ho idea se ci sia ancora, un giochetto all’uopo su Facebook.
A dire il vero poi, vestiti, accessori e scarpe non mi entusiasmano molto*, ci sarebbero delle ballerine e dei sandaletti borchiati, anche se comprarsi delle JC senza tacco è di fatto una contraddizione in termini e le borse da uomo fanno orrore, se pensate al braccio di un uomo mediamente interessato a scoparvi.
La cosa figa è l’esserci, pensare di fare colazione insieme il sabato mattina e poi piazzarsi lì, in attesa che ti diano un braccialetto a tempo per i tuoi acquisti, rigorosamente contati anche quelli.
E a noi, si sa, i braccialetti ricordano i festivalli estivi, creandoci falsi entusiasmi e caduchi desideri.
E poi, altro atteggiamento ovvio della condizione umana non è comprendere finalmente che tutto ciò che volevi ti è assolutamente chiaro solo quando in mano ad un altro?
Gimme those shoes, bitch
.

* Diversamente mai avrei scritto prima degli acquisti.

jimmy-choo-hm

giovedì, 17 09 2009

Per amarla, onorarla e ascoltare insieme i dischi dei Pantera, finchè morte non vi separi?

Se il matrimonio d’o Zulù vi è sembrato troppo sobrio ma siete appassionati del genere, probabilmente amerete questo spettacolare set di foto di un vero matrimonio metal.

Qui sotto: gli sposi, la sposa con le damigelle, il prete (?) che officia la cerimonia (su un pickup, e dove sennò). Dev’essere stato un evento delizioso.

 

 

 

 

 

[trovato su Tacky Weddings, un blog interamente dedicato ai matrimoni trash. Qualche esempio? Che ne dite di un matrimonio nel negozio Tutto a 99 cents? O di questo "Super-slutty wedding dress"? Dei matrimoni patriottici americani? O dei terrificanti matrimoni gotici? Se avete davvero fegato, però, cliccate su quelli a tema Hello Kitty…]

 

sabato, 29 08 2009

Shoes for the indie-rocker

Oh No Oh My: le Nike SB Blazer Elite Sub Pop. Nike??

[bruttine, peraltro]

 

venerdì, 14 08 2009

5 cose su Lady Gaga che probabilmente non sapete

Fino a qualche mese fa non l’avrei mai detto, ma a questo punto è abbastanza evidente: Lady Gaga è il personaggio pop dell’anno.

Ecco 5 cose che probabilmente non sapete di lei:

 

 

1. Pare che solitamente non indossi le mutande.

 

2. Lady Gaga è in realtà un fantoccio nelle mani dell’Ordine occulto degli Illuminati, come è chiaro dal suo look e dal simbolismo associato (analisi dettagliata su The Vigilant Citizen, memorabile sito cospirazionista che vi consiglio).

 

3. Il suo stile è un completo plagio di quello di Roisin Murphy, già cantante dei Moloko. (se n’è lamentata lei stessa).

 

4. Online c’è un completo video tutorial per conciarvi come lei nel video di Poker Face.

 

5. Voci insistenti dicono che in realtà sia un’ermafrodita.

 

 

Con in giro gossip del genere è chiaro che ha già vinto.

 

 

Orba squara – Poker face (Lady Gaga cover) (MP3)

[splendida]

 

venerdì, 31 07 2009

C’è ancora speranza

E dire che io non ci speravo più. La supposta commedia indie americana (si accetti la definizione come una semplificazione) secondo me aveva toccato il fondo con Nick & Norah’s infinite playlist: un’ora e mezza di vuoto con un burattino e una tipa yeah che si dicono banalità mentre in sottofondo passa tutta la musica più hip del momento. Un’ora e mezza con il potere di farti sentire puntato, targettizzato, inscatolato e rivomitato da uno che a giudicare dalla profondità a cui arriva probabilmente ha mirato giusto alle tue Converse.

E se la commedia americana, perso il tocco leggero di Cameron Crowe (che da Elizabethtown – un film che è piaciuto solo a me tra tutte le persone che conosco con un quoziente intellettivo superiore a quello di un bonobo – non si è più ripreso, a giudicare dall’attuale inattività), si è arroccata sempre di più sui suoi macrogeneri (la commedia vaginale, per rubare una definizione che credo sia del Maestro, i film con Matthew McConaughey, che fanno sottogenere a sé per insulsaggine e scipitezza, e la slapstick frat-pack comedy alla Apatow, che al sottoscritto ha sempre fatto insopportabilmente pena), i segnali d’allarme della vena para-Sundance si vedevano secondo me (e non penso di essere il solo) già nell’apprezzatissimo – da molti che non sono me – Juno. Personaggi con la profondità della carta velina, dialoghi quirky a costo di rinunciare ad ogni svolgimento narrativo apprezzabile, grosso lavoro di scenografia per collezionare gli improbabili feticci dell’indie-wannabe (per andare sull’ovvio scarpe, tracolle, magliette, occhiali buffi, poster, ma anche telefoni a forma di hamburger, auto scassate, gadget improbabili – chessò, pipe); insomma delle enormi confezioni per accompagnare chili e chili di musica bellissima, bella, carina, osannata da Pitchfork, osannata da NME, osannata da quel dj convinto che il ritornello di Panic dica “I’m the dj, I’m the dj”*.

E solo ora che scrivo mi vengono in mente Little Miss Sunshine e Me and You and Everyone We Know, due ottimi esempi di come la percezione comune dell’attitudine arty sia direttamente proporzionale all’insensatezza dei dialoghi e alla pochezza della trama, nonché di come il fenomeno sia molto meno recente di come la sto mettendo io – ma non approfondirò, perché non voglio scrivere le solite venti paginate, e mi limiterò ad accennare che potrebbe essere la stessa pericolosa china del feticismo esasperato dell’ultimo Anderson. Se ancora non capite dove voglio arrivare, a me sembra che la direzione della commedia indie contemporanea sia questa (io l’ho scoperto grazie alla Fagotta, che ringrazio – sempre):

 

 

e ammettetelo, fa paura.

Però ho avuto modo di vedere recentemente (e quasi di seguito) ben due film che mi hanno fatto cambiare idea.

Il primo, che mi sento di definire senza remore una tradizionalissima commedia romantica appena spruzzata da sfumature ind… quelle là, è How To Lose Friends And Alienate People. Primo film vero e proprio del signor Weide, regista per la televisione e autore di alcuni biopic che non ho visto (uno su Lenny Bruce, uno in produzione sul Kurt Vonnegut, sempre sia lodato), parla di un giornalista inglese di una rivista sinistroide di “low culture for eyebrows”** che si ritrova a scrivere a New York per Sharps, la rivista di glamour che… la… oh, insomma, Vanity Fair sotto falso nome.

La cosa che spiazza del film è la caratterizzazione del protagonista, interpretato da Simon Pegg (a cui dovrebbero erigere più di una statua): nonostante sia indiscutibilmente un nerd e un tipo alla mano capitato impromptu nel tempio dell’apparenza, il suo personaggio è oggettivamente sgradevole per la maggior parte del film. Dice cose evitabili, è spocchioso, borioso e per nulla insicuro di sé anche dopo aver infilato una gaffe dietro l’altra.
Non che sia materiale per aspirare ad un Oscar, ma nel regno dei luoghi comuni (non voglio infilare una tirata sugli europei smaliziati che credono nella realipolitik vs gli americani manichei che credono nella dicotomia good guy/bad guy e al valore della popularity, ma è un dato di fatto che la Grande Commedia Americana degli ultimi anni si regge su archetipi scavati nella roccia: l’Insicuro, lo Sfigato, la Stronzetta, la Dura-fuori-ma-forte-dentro, continuate voi) è abbastanza per conferire al twist un’apprezzabile vivacità. Kirsten Dunst e svariate citazioni dalla Dolce Vita completano la gradevolezza dell’insieme.

Quello che però mi ha veramente colpito è Adventureland, opera terza da regista del responsabile di Superbad, su cui a suo tempo mi espressi in maniera abbastanza netta (nella seconda parte di questo post, quella intitolata “blubblanchet vi spiega i giovani”, ma se preferite due parole: Superbad è un film sessuofobo incentrato su regazzini che – ovviamente – non pensano ad altro che al sesso, infarcito di gag del cazzo che le avessero fatte in un film italiano staremmo ancora qui a sollevare il fantasma dei Vanzina***).
Greg Mottola (così si chiama) di Adventureland è anche sceneggiatore; e si tratta di un film di stampo fortemente autobiografico ambientato nell’estate dell’87, in cui un ragazzo deve trovarsi un lavoro estivo e finisce in uno scalcinato parco giochi (l’Adventureland del titolo) a vivere la prima esperienza sessual/affettiva seria della sua vita.

 

 

Spaventati? Lo ero anch’io. O perlomeno pieno di pregiudizi, tutti negativi. Però Mottola fa, non saprei come dirlo altrimenti, un cazzo di miracolo. Intanto fa un film che, cito ancora il Maestro, non sembra un film sugli anni ’80, ma un film degli anni ’80, ricreando uno spirito del tempo con poche pennellate che non sembrano mai forzate (roba che nemmeno Donnie Darko). Poi fa un film pieno di musica da paura, che non è la musica hype degli ultimi 15 minuti ma Replacement, Big Star, Hüsker Dü, Lou Reed, etc, con una colonna sonora originale ad opera degli Yo La Tengo (perfetti come sempre), e per una volta davvero si ha la sensazione che ogni canzone sia funzionale alla trama e non, viceversa, che la trama sia un pretesto per ammucchiare ancora un’altra canzone. Un film in cui il personaggio che fuma la pipa dice "patetico, vero? Ma a me piace", o giù di lì, e non gli puoi dire niente, perché ha il sacrosanto diritto di fumarsi la sua pipa in santa pace.

Infine, soprattutto, fa un film che di quella costruzione per archetipi/stereotipi tipica della commedia americana (e dei dialoghi quirky immancabilmente tipici della commedia indie americana) si fa allegramente beffe. Un racconto di formazione in cui il protagonista è un nerd timido e impacciato ma non è un impedito (ed è capace, come l’altro grosso nerd del film, di una robusta autoironia****), in cui i dialoghi non sono troppo perfetti ma nemmeno troppo clumsy per essere veri, in cui si ride ma senza che qualcuno tenti di tirarci fuori la risata a forza dalla gola, in cui si può dire oooh e ci si può vergognare (questo solo se avete un massimo di diciotto anni e, preferibilmente, siete una donna*****) perché quello che succede è maledettamente sincero. Un film che non si nasconde dietro il paravento del protagonista “uguale a noi”: NO, il protagonista (i protagonisti) di Adventureland non fanno nulla per essere uguali a noi. Fanno errori che noi magari non abbiamo fatto e non ne fanno molti che avremmo fatto, dicono cose che noi (io) avremmo saputo dire meglio e cose che noi (io) a quell’età non avremmo saputo dire.

E soprattutto, vivono la fine della loro teenage con una spensieratezza misurata che il cinema ha sempre avuto problemi a descrivere, perso com’è tra i suoi loser e le sue cheerleader, impegnato ad ingigantire all’infinito problemi ombelicali di ragazzini impaccati di grana.
Adventureland
è la storia di un ragazzo che deve fare un po’ di soldi e conosce una tipa che gli piace, e cerca di viverla bene. Non sono io, non siete voi, non è un’avventura memorabile, non è ricercatamente strano, è una piccola, bellissima storia senza pretese. Guardatelo se potete.

 

 

* aneddoto vero, e no, non dirò di chi si tratta – se non di persona, previo lauto compenso.
** è la definizione della vera rivista di Toby Young, dal cui memoir semi-autobiografico è tratto l’ancora meno autobiografico libro.
*** del resto Superbad è un film della scuderia di Apatow, uno che quando si dà alla commedia presunta garbata tira fuori mostri come Knocked Up – che si può definire soltanto reazionario solo a volergli molto bene.
**** ora che scrivo mi viene in mente che si potrebbe accusare il film di mettere le mani avanti. Ma anche fosse, è un fatto che se cade, cade in piedi.
***** io lo faccio comunque, ma io non sono un campione attendibile.

venerdì, 03 04 2009

I always wanted to be Inkiostro

tenenbaum fail

Il blog più bello di tutti i tempi – “tutti i tempi” che nella mia mente devastata e vile corrispondono più o meno a due giorni – l’ho scoperto ieri. Si intitola TENENBAUM FAIL ed è geniale a più livelli.
Sì, perché ha come oggetto l’emulazione fallita da parte della più varia umanità di un film che non solo ha come tema centrale proprio l’emulazione fallita (“I always wanted to be a Tenenbaum”…), ma è esso stesso un esempio clamoroso di emulazione fallita (del cinema vero, ad esempio), per tacere del suo autore, un regista che ogni volta tenta fallimentarmente di emulare un figo.
O detta altrimenti: il film di Wes Anderson ha sì per oggetto l’emulazione fallita, come Madame Bovary poniamo, ma dato che – a differenza di Madame Bovary – del mimetismo sociale non ne decostruisce i meccanismi e il potere, ma anzi questo potere lo rafforza e lo esalta (da cui il piacere che ne ricaviamo), finisce per perpetrare lo stesso desiderio di emulazione che mette bonariamente alla berlina.
Detto ciò I Tenenbaum sono, ovviamente, uno dei miei film preferiti di tutti i tempi.

tenenbaum fail
epic fail
sbombabilissima

mercoledì, 11 03 2009

«Who is this fat woman and why I’m being forced to touch her?»

Beth Ditto e Karl Lagerfeld. Scatto bellissimo, titolo e foto rubati di sana pianta da Best Week Ever.

 

mercoledì, 14 01 2009

qui osservatorio street fashion live a voi studio

di

Mercoledì 14 gennaio 2009, un quarto d’ora di passeggiata digestiva post pranzo lungo Corso Vittorio Emanuele a Milano, la capitale mondiale della moda.

 

Link al set.

 

A bit scary.

 

[previously]

 

martedì, 13 01 2009

Uggly

di

uggForse non al livello delle Crocs, ma vogliamo parlare di ‘sto obbrobrio di calzature a metà tra gli stivaletti à la Porcahontas e le scarpe di feltro da casa/cortile delle vecchie contadine? Guarda che ti vedo, lettrice di Inkiostro, ce le hai addosso: vergogna!

(c’è anche chi ne auspica la sparizione per mano della crisi finanziaria)

martedì, 26 08 2008

Something in the wayfarers

 

A suo tempo l'anatema che lanciai da queste pagine contro le Crocs fu, se non utile, quantomeno liberatorio.

 

Se quest'anno avessi voglia di fare lo stesso, non potrei che rallegrarmi per l'imminente fine dell'Estate, che insieme al caldo e alle zanzare si porterà via anche il detestabile revival dei Rayban Wayfarers, gli occhiali da sole goffi e plasticosi pressochè ubiqui in questa Estate 2008.

 

 

 

Usciti direttamente dagli anni '60 (anche se a me inevitabilmente ricordano gli anni '80), i Wayfarers -che danno il peggio di sè quando sono bianchi o di colori brillanti (per non parlare di quelli fluo)- sono dei brutti pezzi di plastica che hanno la rara capacità di sembrare capitati per caso sui nasi dei poveracci che li portano, e che solitamente hanno sborsato dai 100 ai 300 euro per farsi rovinare i connotati e conformarsi alla massa di vippini e starlette che ultimamente ne hanno fatto mostra.

 

I loro difensori (ce ne sono di tutti i tipi: dagli hipster più brooklynofili a semplici modaioli che li hanno visti su TRL) citano Audrey Hepburn e Chole Sevigny; io rispondo con Paris Hilton, Zac Efron, e le peggio divette catodiche di cui sopra, augurandomi che quei pezzacci di plastica facciano presto la fine che meritano coloro che li sfoggiano.

E mi tengo stretti i miei occhialacci a goccia del mercato della Montagnola, comprati per un tozzo di pane a revival ben finito e se Dio vuole mai più tornati di moda. Sperando che l'anno prossimo non sia il turno dei tamarrissimi Shuttershades di Kanye West, altrimenti siamo davvero finiti.

 

giovedì, 19 07 2007

Le Crocs, will they blend?

L’altro giorno, sconsolato, mi guardavo in giro: le Crocs sono ovunque. Le mostruose calzature a metà tra lo zoccolo della nonna e il sandalo che i genitori costringono i bambini ad indossare per camminare sugli scogli sono la perfetta materializzazione estiva del peggior incubo di ogni amante del buon gusto. Sono talmente brutte che rivalutano in un sol colpo generazioni e generazioni di sandali ortopedici, scarpe traspiranti, infradito più o meno tamarre, espadrillas, ciabatte col calzino bianco di spugna e via andare. Bush si è fatto fotografare mentre le indossava (foto), c’è chi si sposa con quegli abomini ai piedi (foto) -mi chiedo che genitori siano- e l’altra sera, in centro, ne ho incrociate almeno una ventina.

Per conoscere il nemico c’è un bell’articolo di Slate, e per combatterlo c’è la bibbia www.IHateCrocs.com (sottotitolo: «odio le Crocs così tanto che ho comprato il dominio»), la cui autrice si esibisce in memorabili opere distruttive come quella qua sotto. La resistenza è appena cominciata.

 

martedì, 01 08 2006

Lo sfogo del piccolo consumatore insoddisfatto

Sono appena tornato a casa dopo l’ennesimo giro per tutta la città in cerca di un paio di sneakers (o scarpe da tennis, come si diceva una volta) che sostituiscano le mie scarpe attuali che cadono a pezzi.
Non sono riuscito a trovare un solo paio che mi piaccia.
Le Puma mi fanno il piede a trapezio (giuro), le Nike sono il male, le Airwalk (il mio sogno proibito da quattordicenne) e le Vans mi fanno i piedi come due barche e finisco per sembrare il personaggio di un manga, con le Onitsuka tiger (o Asics, come si diceva una volta) e le Puma più plasticose mi sembra di indossare dei grossi profilattici, le Converse non le ho mai avute e non vedo perchè cominciare ora, la Adidas non sforna un paio decente dai tempi delle Gazzelle (con le quali mi sembra di camminare scalzo, tanto sono basse). Reebok non pervenute, le altre marche (più o meno costose) scartate sempre per palese incompatibilità estetica. Insomma, per un motivo o per un altro non ho trovato un solo paio che mi piacesse. Sono anormale?