Fino a qualche anno fa avrei segnalato lo spendidio post di Chris DeVille su Stereogum Deconstructing: The O.C. And Indie Rock Gentrification pochi minuti dopo la sua pubblicazione, e l’avrei probabilmente integrato con le mie riflessioni sul non-genere musicale a cui abbiamo dedicato parte della nostra gioventù. Ora invece, incastrato tra gli impegni di lavoro della mia società e quelli della vita personale, distratto dalla pianificazione di una vacanza in un posto esotico e senza neanche fare più finta di aver voglia di ascoltare dischi nuovi, lo linko con una buona giornata di ritardo e mi limito a un pigro copiaincolla. Come dice il finale, «For better or worse, indie rock has settled down into a comfortable life of luxury, nostalgia and privilege. Seth Cohen is all grown up, and he looks a lot like his parents.», che è in parte vero e in parte no. Ma non ho neanche più voglia di spiegarvi perchè in parte no, quindi facciamo che sì.
Ten years ago today, five words forever changed the nebulous concept known as indie rock: “Welcome to the O.C., bitch.” That dialogue was in the pilot of Fox’s teen soap opera The O.C., but you already knew that. The fact that it’s virtually impossible to imagine a reader of this website who isn’t aware of the show underlines the notion that it played a huge part in the genre’s trajectory this past decade — and in tastemakers’ retreat from it.
Let’s not belabor the whole “What does indie rock even mean?” thing. Yeah, “indie” is short for independent, and somewhere along the line it shifted from a description of a business model to a description of a musical style, at which point it was distended, like “grunge” and “alternative” and “new wave” and “punk” and “metal” and “rock” before it, beyond coherence. The O.C. played a pivotal role in that process. Still, even at this late date, you know indie rock when you hear it, whether in classicist forms like Parquet Courts and Cloud Nothings or modernized festival tentpoles like TV On The Radio and Spoon and Yeah Yeah Yeahs. It’s intangible but unmistakable — a designation you’d assign to Liz Phair’s shambolic underground smash Exile In Guyville but never her radio-baiting Liz Phair.
Back in June, I argued that a move like Phair’s much-maligned pop crossover attempt in 2003 never would have provoked so much outrage in 2013. The thesis was basically that “poptimism” — the unapologetic embrace of pop music once deemed distasteful by critical elites — had been internalized to the point that your average straw-hipster is more likely to fawn over Justin Timberlake or Beyonce than the Walkmen or the National, and that becoming a superstar, even “selling out” to become a superstar, is now applauded rather than shunned. It ended like so: “In 2013, poptimism is the air we breathe. Why that happened is a complicated argument for another essay.” If there was ever an occasion for that essay, it’s the tenth anniversary of The O.C., a major player in the gentrification that helped drive away the kind of people who think of themselves as cutting-edge. [#]



Non ricordo chi era stato a dirmi che se un disco riesce ad accompagnarti per almeno due stagioni è già un gran disco, perchè contiene al suo interno una variabilità di atmosfere o di possibili letture che solo un'opera di un certo livello riesce a raggiungere compiutamente. Il nuovo disco dei Woods ha fatto da soundtrack alle tarde settimane della mia Estate, quando il folk rock di Cali in a cup illuminava le mattinate calde di una spensieratezza piacevolmente irresponsabile e la sua armonica odorava di anni '60 e coste del Pacifico dove non sono mai stato; ma poi è arrivato l'autunno, e poi l'inverno, e lì per me c'era la bella ballad It ain't easy, che dispensa una curiosa saggezza gattopardiana quando spiega che «Non è difficile dire che le cose non sono facili, mentre cerchi modi diversi per far sì che le cose rimangano le stesse». Parole sante.
Non sapevo di esser così tanto fan degli Spoon finchè non sono arrivato a stilare questa top ten e ho scoperto che ci sono finiti ben due dischi che alla band di Britt Daniel sono legati a doppio filo. Se i Divine Fits, tre posizioni più avanti, vedono tra le proprio fila proprio il cantante della band newyorkese, i White Rabbits col terzo disco Milk Famous rilanciano forte e chiaro gli insegnamenti che il suddetto Daniel gli ha dato producendo il precedente It's frightening. Se lo vedi con malizia è quasi plagio, se invece te ne freghi sei portato a pensare quasi che gli allievi stiano arrivando a superare i maestri, con una costruzione delle canzoni attentissima e un talento per gli arrangiamenti incastrati e spezzati che non è da tutti. Il tocco c'è, la personalità arriverà (e speriamo che non rovini tutto). Per ora c'è un bel disco, e mi pare abbastanza.
Vi ho detto già troppe volte quanto amo i Pinback e praticamente tutti i loro effetti collaterali che ormai in merito non so più cosa scrivere. Se non avete amato prima il loro indie matematico che deriva tanto dalle frequentazioni alternative che spesso hanno sfondato i confini del metal del chitarrista Rob Crow quanto al passato con gli indie heroes Three mile pilot (in cui milita anche Pall Jenkins dei Black Heart Procession) del bassista Zach Smith non comincerete ad amarlo con il disco che vede il loro ritorno sulle scene dopo 5 anni di pausa. Ma secondo me non sapete cosa vi perdete o non ci avete provato abbastanza, perchè ogni volta che spingo Play mi viene da pensare che di gruppi così unici in giro non se ne trovano quasi più.
L'avevo preso un po' sotto gamba, il quinto disco degli Hot Chip. Negli ultimi tempi Alexis Taylor e soci sembravano un po' appannati e fuori dal tempo, incapaci di mantenere quello che il loro capolavoro The Warning otto anni fa prometteva e sospesi in uno status di simpatici mestieranti del pastiche sonoro, capaci di scrivere pezzi killer ma incapaci di fare veramente un salto verso la serie A del pop elettronico.
La cosa chiamata Divine Fits è il supergruppo di Britt Daniel degli Spoon e Dan Boeckner degli Wolf Parade, e per uno strano miracolo riesce a essere un disco vero di una band vera che spesso finisce per essere milgiore della somma delle sue parti. Ti saresti aspettato un presuntuoso lavoretto di maniera da parte di musicisti stufi dei loro progetti principali, e invece ti ritrovi quello che probabilmente è il miglior disco indie-rock del 2012 (che, beninteso, non mi pare sia stato un anno esattamente memorabile per la cosa chiamata indie-rock). Un po' di chitarre, un po' di synth, due voci inconfondibili, linee di basso che spaccano e la sensazione che così tanto talento così ben utilizzato non lo si incontri tutti i giorni in giro. Una cosa chiamata gran disco.
Jens Lekman ormai è uno di famiglia. Non ha più niente da dimostrare eppure ogni volta ce lo dimostra, e disco dopo disco le sue storie si fanno più nitide e vere senza perdere un briciolo della dimensione naif che hanno sempre avuto. E' come se Lekman anno dopo anno non facesse che diventare sempre più se stesso, l'amico con cui vorresti bere una birra una volta a settimana solo per sentirlo ragionare sulla vita, l'amore e tutto il resto, oppure quello che ogni sei mesi si trasferisce in un continente diverso e che, anche se ti racconta ogni volta che ha finalmente trovato il posto per sè, sai bene che finirà per trovarsi sempre da capo. La grandeur pop e la cameretta. Alcuni dei migliori testi che si possano trovare nel pop di questi tempi. Il tentativo di cambiare tutto per poi ritrovarsi sempre lo stesso.
Chelsea, con questo disco mi hai fulminato. Sei sicura che il sound gotico, rumoroso e marziale che normalmente fai («doom folk», l'hanno chiamato) sia veramente quello che fa per te? Perchè in questa raccolta di canzoni piccola piccola con un titolo che odora di opera minore, tiri fuori una classe inattesa e una penna di altissimo livello che nei tuoi dischi precedenti non si sentiva. Mi ricordi la PJ Harvey dolente di To bring you my love o di White chalk, la vedova disperata, l'amante abbandonata, la strega che vive nel deserto e vede presagi di sventura nei segni della natura. Con questi arrangiamenti classici che sembrano venire da un grammofono nell'altra stanza, hai trovato una dimensione sonora di una qualità che prima potevi solo sognarti e che ti mette al pari con i migliori nomi del cantautorato femminile di questi tempi. Me ne puoi fare altri, di dischi così?
Qua non ho niente da aggiungere a quello che scrivevo
Erano i primi gelidi mesi dell'anno, e ascoltavo Restiamo in casa in cuffia mentre tornavo a casa di notte camminando nelle vie del centro. Durante la Primavera La distruzione di un amore mi pareva una canzone all'incontrario con un titolo sagace tutto sbagliato. Ho aspettato l'Estate per poter mettere a ripetizione Oasi nell'autoradio nelle mattine in cui andavamo al mare. Cadevano le foglie e io passavo i miei weekend nei treni mentre Bogotà mi raccontava delle distanze nello spazio e nel tempo.
Scrivevo a Maggio: