inchiostro

sabato, 06 12 2008

Una storia blu

Questa è una storia fatta di fili sottili di trama blu. Che sono luce che filtra ombrosa dalla finestra semichiusa, sono facce di ragazzi, sono la nebbia impalpabile del porto di ancona, e poi ancora i binari della cupa e vegliarda stazione di bologna, sono quella voglia di stare a dormire sotto le coperte blu. Per malattia, certo, non altro.
"E se il cuore sta bene
sarà sicuramente qualcos’altro a non andare."
Il libro inizia dalla sua copertina.
Lucidata uv. Vuol dire che qualcuno ha deciso di tirare a lucido minuscole parti dell’immagine di copertina, per dare loro rilievo. Qui la decisione è tutta logica, eppure impazzita, floreale. Qui la lucidatura disegna gigli. O forse sono fiori che crescono solo sott’acqua, contorsioni subacquee che ti fanno passare il dito su tutto quel blu a rilievo. E poi ci sono i fili.
Mentre leggevo, mi veniva in mente il tempo in cui si facevano telefonate, la cornetta appoggiata sulla spalla, il filo che si perdeva in un’intrinseca dinamica di muro, la mano che mentre si parlava disegnava veloce con una bic (blu) qualcosa su un bloc notes cui la mamma attribuiva previdenza di appunto ma che a lungo andare rivelava il suo inevitabile status di Oggetto Più Inutile Del Mondo.
Ecco. I fili che si disegnavano, tutti così paralleli, tutti così provenienti da una bic blu. Quelli che noi non sapevamo fare, qui ci sono, fatti bene, fatti giusti, fatti che ti incanti a ogni tavola a contarli, quasi.
Poi ci sono tavole bianche, perché sono le tavole del dolore. E di dolore ce n’è tantissimo, in questo fumetto.
"Cercai di riemergere in superficie senza toccare il fondo
come una sensazione di soffocamento"
La storia è una storia fatta su un filo solo. Una ragazza, con un male di vivere. Non è la solita storia da giovani, per giovani. Non è il solito scontorno di trentenni ammuffiti sui banchi delle medie e violentati dal lavoro in un call center. E’ una storia blu. Fatta di fili, come quei diagrammi cartesiani che se da bambino collegavi i numeri alle lettere veniva fuori qualcosa che non ti aspettavi.

 

Domenica l’autore di Quando tutto diventò blu, Alessandro Baronciani, sarà alla Feltrinelli Village di Parma, a presentare il suo ultimo libro. H. 17.00. Presenta gradoZero. partecipa Sergio Rossi.
Non mancate.

 

mercoledì, 17 09 2008

Quattordici o quindici cose che penso di lui. A proposito di un ragazzo prodigio.

 

LUOGO: BOLOGNA, EMILIA ROMAGNA, ITALY
DATA: 14 SETTEMBRE 2008
SOGGETTO: OVVIO

 

La prima cosa che ho pensato è che non è una cosa bella da far trovare a una moglie.
Voglio dire, no. Non è una cosa affatto bella. Ehi gente, io stavo in una farmacia comunale, voglio dire, stavo comperando la mia dose mensile di pillole anticoncezionali ed era il Giorno Del Mio Compleanno. Cioè, stavo proprio pagando le mie pillole, il Giorno Del Mio Compleanno. Quando me l’hanno detto. Il Giorno Del Mio Compleanno. Mi hanno detto: è morto. Gli auguri, quelli in un post scriptum.
Allora io dico: come, è morto. Non può. E invece mi dicono: ehi, mi dispiace. Mi dicono: impiccato. Auguri, mi dicono. Allora io dico: come, è morto. Dico: comunque uh grazie per gli_ E allora mi dicono: L’ha trovato la moglie non meno di due ore fa. Chiedo al farmacista che ore sono. Sono le undici e un quarto della mattina del Giorno Del Mio Compleanno. Il Nuovo Orrore.
La seconda cosa che penso è al fuso orario americano e a quanto la vita ruoti con la sua laica rigidità anche troppo intorno a un asse. Non. Esistono. Coincidenze.
Adesso però, grazie all’Orrore, c’è qualcosa di cui parlare che è più forte di ogni inibizione, come se fossimo tutti lì e avessimo appena visto lo stesso incidente stradale.
Credo che lo stiamo tirando un po’ giù tutti quanti da quella corda.
Una cosa che penso adesso, tra le tante, a mente sgonfia: diventerai il mio personalissimo Quattordici Settembre. Il Nuovo Orrore.
La terza cosa che penso è relativa ai Primi Cinque Minuti Post Orrore, ed è: perché nessuno me lo dice, perché nessuno mi sta vicino in questo blabla. La quarta ben più angosciante cosa che penso segue immediatamente la ben meno angosciante terza cosa che penso e cioè: perché me lo stanno dicendo tutti. E tutti a me. Il Giorno Del Mio Compleanno, ah, auguri, tra l’altro. Qualcosa come uhm n-esponenziale numero di sms, insomma questi barili di messaggi listati a lutto che mi dicono: è morto. E grazie al cazzo che è morto, lo so, cosa volete tutti da me. Perché mi sono tutti vicino in questo blabla, è la quarta cosa che penso.
La quinta cosa che penso è che non sono la moglie che lo ha tirato giù. Sono una vecchia sui tacchi che il Giorno Del Suo Compleanno sta comperando cose che hanno incredibilmente a che fare con la sua Già Di Per Sé Complicata Giornata e insomma, mi sembra già un tantinello difficilotta così, voglio dire, trascorrere il proprio invecchiamento cercando di porre un margine alla Possibilità Di Mettere Al Mondo Potenziali E Impiccabili Geni, ehi gente, qualcuno vuole compiere gli anni oggi. Insieme a me. E a Pier Vittorio (passato, diciamocelo, passato momentaneamente e uh uh neanche troppo ragionevolmente in disparte).
La sesta cosa che penso è che la farmacista ha insistito per darmene due scatole. Due, ehi, diciamolo pure, io sono perfettamente consapevole che, ehi lo so che che mio figlio mi tirava per la giacca, in farmacia, chiamandomi Mamma Sotto Shock, Mamma Sotto Shock, però uh, voglio dire, la genitorialità è l’ultima a morire.
Lui no.

 

Non è stato l’ultimo. Anzi, direi notevolmente precoce, il ragazzo prodigio.
La settima cosa che mi viene in mente è che tutto adesso mi sembra targato DFW. Uh, ecco la farmacista che mi impone: Non! Una! Scatola! Ma! Vagonate! Di! Anticoncezionali!, mio figlio che mi strattona: Mamma Sotto Shock!, Nicola che mi fa le condoglianze via sms, Michele che mi fa le condoglianze via mail, Socrì il tabaccaio che mi fa le condoglianze di persona, e mi regala un pacchetto di pall mall, tutto, capite, lo riuscite, ehi, lo riuscite minimamente a capire. E’ come se fossi uscita di casa con lo shampoo incrostato nei capelli. E avessi pianto per tutto il giorno.
L’ottava cosa che mi viene in mente è che secondo me ai suicidi dovrebbero dargli un’altra possibilità. Beh quelli mica si suiciderebbero di nuovo. Non parlo di tentativi andati a male, tipo Pessotto, poveraccio. Secondo me prima o poi ti torna la voglia, se non ci riesci. Finché bingo, olà, ce l’ho fatta, ueee guarda chi c’è ciao kurt, quasi non ti riconoscevo. No no. Parlo proprio di quelli che sono morti. Io se fossi dio li condannerei a un altro giorno sulla terra, da vivi, dopo il loro suicidio. Sono sicura che al ragazzo prodigio gli sarebbero bastate le stronzate di repubblica, on line e non, per dire, oh oh calma, io ci torno qui sulla terra con voi, Io Non Permetterò Mai Più A Nessuno Di Scrivere Queste Immani Cazzate.
La nona cosa che mi viene in mente è che avendo avuto sporadici e didattici e ormai Per Causa Di Un Mio Ineccepibile Calo Di Autostima Per Quanto Riguarda Il Mantenimento Della Mia Socialità Escluso Facebook decaduti rapporti con chi in Italia ha avuto un bel po’ a che fare con lui – fnuf – insomma a me non mi rimane altro che uscire dalla farmacia carica di antifertilizzanti e beccare il primo giornalaio della piazza. Che mi vende repubblica. Che apro ma non ci trovo niente. E allora lo compero il giorno dopo. Che mi serve per elaborare la mia
Decima cosa che penso: il ragazzo prodigio ha scatenato la Caccia All’Indizio. Siamo tutti diventati bravi, caro ragazzo prodigio, a
1- fare finta di aver letto tutto Infinte Jest e trovarci dentro gli Indizi Del Fatto Che Tu Volevi Blabla_
2- fare finta che eravamo tutti i tuoi migliori ami_
3- fare finta di essere bravissimi a ricordarti così come facciamo finta di essere bravissimi a ricordare uh Pazie_
4- essere pronti a scrivere reportage in cui tutti faremo finta di essere bravissimi a ricordarci il Dov’eri tu quando è succ_
5- proprio come kurt cobain.
Kurt Cobain sta al mio odio come le limonate di Vonnegut stanno alla mia adorazione.
Ehi, ragazzo prodigio, io se fossi dio ti direi: Ripensaciii… i…i… Io se fossi dio te la darei la Seconda Possibilità e guarda, stai sicuro che non lo_ eeeeeehi, ma dico, non vorresti ehi ehi non vorresti avere Tutte Le Possibilità Del Mondo, chessò, guardare con occhi sdruccioli la stagione in cui le donne dismettono le gonne estive, bere altre limonate, guardare per la n volta Lolita, sentire il, boh chessò secondo album degli boh chessò Spiritualized (a patto che sia effettivamente il secondo e che gli Spiritualized possano mai ragionevolmente raggiungere lo status di Band Che Raggiunge Lo Status Di Secondo Disco), perché il primo, ehi, il primo (a patto che sia effettivamente il primo) è davvero davvero bello, oppure ehi, non vorresti leggere, per esempio, non vorresti sapere. Sapere. Come. Andrà. Il. Tuo. Ultimo. Libro.
Io sì.
L’undicesima cosa che penso è che non leggerò mai più un tuo libro.
La dodicesima cosa che penso è: io se fossi dio, ehi ragazzo, guardami, perché non è che lo posso essere sempre, insomma beh, io se fossi dio perlomeno te lo impedirei. Il Giorno del Mio Compleanno. Non te lo permetterei. Sopportali tu, i loro "umorismo cupo", "angoscia esistenziale", "la morte non è la fine", io non ce la faccio.
La tredicesima cosa che penso è che la morte non è la fine io l’ho letto un botto di Quattordici Settembre fa. La quattordicesima cosa che penso è che ne La morte non è la fine non c’è mica scritto che ti suicidi, neanche ne La persona depressa c’è scritto che ti suicidi, perché scusa, nell’Aragosta? nellle incarnazioni? negli omini pulisci-vetri appesi lassù? e se me lo avessero pre-detto io non ci avrei creduto la quindicesima cosa che penso è che se mi avessero detto Leggi E Predici! Questo! Ragazzo! Si! Ucciderà! io avrei mandato tutti a cagare. La quindici o sedici ho perso accid_ perso il conto dannaz_ ho perso cosa che penso è che.
Sono triste.
Molto tri_
Niente di tutto questo è reale.
Va tutto a gonfie vele.
Non avrò più dialoghi con t_
Non avrai più dialog_
Non mi apparirai. Stavo facendo il
Ti apparirò. Magari mi vesto da tennista. Ti, ehi ehi bambina, ti apparirò come ti sono sempre apparso_
mio sogno peggiore. Non apparirai.Promettimelo. promettimi che mi appari.
Te lo promet_, ehi ehi, che c’è non ti fidi di me. piccola Lenore, ehi, io, voglio dire, io sono un uomo di_

 

sabato, 06 09 2008

Gitano del cyberspazio però no, dai

La redazione di inkiostro arrossisce all’unisono per le sperticate parole di lode spese da Pier Andrea Canei nell’ultimo numero di Internazionale (non online) nei confronti di questo blogghetto (in occasione della segnalazione dell’ultimo singolo di Fujiya e Miyagi all’interno della sua rubrica Playlist):

Fujiya e Miyagi – Knickerboxer

E poi ci sono i gitani del cyberspazio, quelli che non smettono mai di girellare da un link arcano a un server remotissimo, in cerca di musica video e sorprese. Come il famigerato Inkiostro da Bologna, uno che vale la pena di andare a trovare (su inkiostro.splinder.com). Da anni è quasi sempre il primo o l’unico a reperire librerie dalle forme improbabili, giochi, vario cazzeggio internautico e anche musica interessante. Come l’ultimo delirante video di questo quartetto di Brighton dal nome nipponico e dallo swing elettronico, che sminuzza il pop delle nostre vite quotidiane in piccole diapositive colorate da rivedere all’infinito.

[Grazie a Mingo e Pirex per la segnalazione. E ovviamente a Pier Andrea Canei, troppo buono. Il video e la canzone sono sempre qui]

 

mercoledì, 02 07 2008

Volevo dirvi_

 

_che fa un caldo bestia.

 

_che il caldo mi rincoglionisce, e per questo finisco ad ascoltare col repeat cover acustiche da catechismo di classici immortali del pop elettronico interpretati da terrificanti band commerciali danesi:

 

Alphabeat – Digital Love (Daft Punk cover) (MP3)

 

 

_quanto è figa Mad Men, la spettacolare serie tv ambientata nel mondo dei pubblicitari della New York degli anni '60 che anch'io come voi ho scoperto grazie al post di Icepick. Se non credete a lui o a me credete ai Golden Globe che ha vinto quest'anno come Best drama e per il miglior attore, o al lunghissimo articolo di copertina del New York Times Magazine della settimana scorsa. Ho divorato la prima stagione a tempo di record, e la seconda comincia tra meno di un mese. Oh my.

 

_che -mea culpa- non avevo ancora segnalato la puntata di Maps di quasi un mese fa in cui io e Arturo Compagnoni abbiamo chiacchierato con Francesco Locain dell'ormai celebre PomaGate, col fake dei Death Cab for Cutie scelto come Disco del mese del numero di Rumore di Giugno. Ascoltate l'audio e poi ditemi: siamo o non siamo quasi -quasi- riusciti a raggiungere delle conclusioni?

 

_che ieri mi ha scritto Uomonero (il creatore di Splinder, per voialtri che 6 anni fa non c'eravate), che mi segnala Ideare casa, il suo nuovo blog interamente dedicato all'arredamento. Ottimamente scritto e davvero ricco, consigliatissimo a tutti gli appassionati di design. Anche se lo vedo un po' carente sul settore delle librerie: posso dare una mano?

 

_cose su Frequenze Disturbate, la cui ormai storica disorganizzazione pare non cessare con gli anni e col cambio di gestione (da DNA e LiveinItaly). Così a poco più di un mese dall'indie festival urbinate amato da grandi e piccini sono cambiate la data (non è più il 2 e 3 di Agosto, come dicevo qui, ma il 9 e il 10) e la line-up (definitivamente sfumati Oneida ed Emiliana Torrini, quasi certi Radio Dept e Cristina Donà, probabili Akron Family e Nina Nastasia, da confermare Okkervil River -ooops, non potevo dirlo?- ), e ancora latita ogni conferma ufficiale su carta (anche se a giorni dovrebbe uscire la pubblicità sui mensili musicali di Luglio) o su web. Ho il sospetto che non sarà proprio un'edizione affollatissima.

 

_che 78.08, ultimo romanzo di Tommaso Labranca è un'eccellente lettura estiva, a partire dalla bizzarra cornice (il confronto tra il .78 di Tony Manero ne La febbre del sabato sera e lo .08 del protagonista Antonio Maniero) per continuare con le straordinarie digressioni pop che contengono, come al solito, riflessioni fulminanti sulle nostre miserande vite desertificate. Consigliato 
[more su Anobii]

 

_che avevo già letto in passato vaghe notizie sulle cyberdroghe musicali, che ieri hanno fatto il botto sui siti di informazione italiani (La Stampa, TGComPunto informatico) con l'ovvio florilegio di allarmismi e cialtronerie assortite. Viste le fonti e la pressochè totale assenza di pareri o racconti vagamente attendibili, io continuo a pensare sia la solita vaccata generalista e iperbolica a cui i media italiani ci hanno da tempo abituati. Però chissà, magari stavolta non esagerano; in caso sono pronto ad essere smentito, e sarei curioso di saperne di più.

[grazie a Plz] 

 

_che fa troppo caldo, quindi mi sa che non vi dico più niente, e appena posso vado al mare.

martedì, 01 07 2008

How to write a post about How-to books

The 10 craziest How-To books: esistono davvero (per molti c’è anche link per acquistarli su Amazon, se non ci credete) e in più di un caso è difficile resistere alla tentazione dell’acquisto impulsivo fatto al solo scopo di scoprire cosa c’è scritto.

Quali saranno le istruzioni di Come diventare Papa? E quelle di Come defecare nei boschi? Non siete anche voi divorati dalla curiosità?

 

sabato, 21 06 2008

bum bum bum

quanto t’amo secondo te quanto?
in chili quanto t’amo?
il litri quanto t’amo?
quanto t’amo in metri?
quanto, dimmi quanto secondo te quanto
in iarde? (una iarda è 0,9144 metri)
quindi quanto t’amo in iarde secondo te?
e secondo te quanto t’amo in megatoni?
in mele?
in api?
in camions?
ma secondo te è possibile amarti in cani?
in cani ad esempio quanto t’amo in cani?
in fuchi?
in biglie?
in polpastrelli?
in delta di fiumi?
quanti delta di fiumi abbisognamio per esprimere quanto io t’amo?

 

in presidenti della repubblica italiana?
lo so, ti sembra strano
ma è plausibile esprimere quanto t’amo in presidenti della repubblica italiana
de nicola
einaudi
gronchi
segni
saragat
leone
pertini
cossiga
scalfaro
ciampi
napolitano

 

solo undici!
no
almeno altri cinquecento anni di presidenti
almeno

 

in umberto eco?
quanti umberti echi ci vorrebbero
per stabilire quanto t’amo?
impossibile dirai tu
infatti
ce n’è uno solo
ma immagina che uno possa moltiplicare umberto eco
quindi quanti echi quanti secondo te quanti?

 

è inutile
lo so
non esiste
un’ unità di misura valevole
per calcolare quanto t’amo

 

apparte
il vecchio vecchio
bum bum bum
del mio cuore aritmico
bum bum bum
quando ti vedo
che mi cammini verso

 

[Guido Catalano]

[appena scoperto grazie all’analogo post di Chiara e immediatamente ordinato]

 

venerdì, 13 06 2008

C’era una volta il nastrone

E’ un rito che ai tempi abbiamo fatto decine di volte.

Abbiamo passato ore a scegliere tutti i pezzi uno ad uno, a decidere l’ordine migliore, cosa mettere in apertura e cosa in chiusura, dove piazzare i pezzi da novanta e dove posizionare i pezzi che sottolineavano meglio il messaggio che volevamo mandare (c’era sempre un messaggio). Abbiamo scritto i titoli uno dopo l’altro stando attenti a non far sbaffare il tratto-pen sulla carta lucida della copertina (io, per evitare di passarci sopra con la mano e toccare l’inchiostro fresco, li scrivevo in ordine inverso), abbiamo considerato se mantenere un look sobrio e anonimo (titoli e poco più, di solito io facevo così) o se donargli una veste grafica più accurata (una foto? un ritaglio di giornale? un disegno?), abbiamo scelto il titolo (la chiave -ovviamente enigmatica- per capirne il senso profondo), valutato se fare una dedica o quantomeno una firma o una sigla, e alla fine l’abbiamo messo nella piastra e premuto «play», per sentire come suonava dell’inizio alla fine.

 

Abbiamo registrato mixtape per far colpo sulle ragazze, per far conoscere musica nuova agli amici, per avere la nostra colonna personale nell’autoradio, per festeggiare ricorrenze nostre o altrui, per selezionare la scaletta killer di un artista o un genere, per confezionare il mix da party definitivo, e per far colpo sulle ragazze (l’ho già detto?). Alla fine degli anni ’90 siamo passati ai cd masterizzati, sembrava un passo naturale ma già non era la stessa cosa. Ora facciamo le playlist sull’iPod, scriviamo le scalette sui blog, linkamo i nostri muxtape, ma la magia è persa, e lo sappiamo. La magia dei nastroni e della loro cultura è persa, e non tornerà.

 

Mix Tape – L’arte della cultura delle audiocassette è il libro compilato da Thurston Moore (voce e anima dei Sonic Youth, tra le decine di altre cose) per celebrare ed onorare questa piccola forma d’arte ormai scomparsa. Pubblicato negli States nel 2005 e appena uscito nelle nostre librerie nell’edizione italiana (bellissima e assolutamente fedele all’eccezionale veste grafica dell’originale) grazie alla sempre beneamata ISBN Edizioni, Mix Tape raccoglie le storie e le immagini di decine di nastroni originali a suo tempo creati da una serie di personaggi dell’undergound americano, selezionati da Moore.

Un libro che è un piacere sfogliare e guardare, rifacendosi gli occhi con le BASF dai colori acidi e le Sony nere e sobrie, con i titoli scarabocchiati a penna, le grafiche do-it-yourself, il mondo perso che evocano e i ricordi che fanno riaffiorare. Un libro che è un piacere leggere, nelle annotazioni brillanti di Thurston Moore e di Bruce Sterling (autore, nell’introduzione all’edizione italiana, di alcune delle osservazioni più lucide), nelle storie minime -ironiche, curiose, malinconiche- raccontate dagli autori dei nastri, nelle scalette d’altri tempi che riportano, e negli squarci di vita che se ne possono desumere. Un libro eccezionale.

 

Stasera, a Get Black, (come sempre alle 21 sui 103.1 FM a Bologna e provincia, per gli altri in streaming OGG o MP3, e dal weekend scaricabile in podcast) parliamo di nastroni, mixtape, cassette e di quello che hanno significato per noi, nei nostri personali amarcord e nella storia della musica e della sua fruizione.

Non paghi di scoperchiare questo vaso di Pandora, tentiamo nel nostro piccolo di emulare Thurston Moore e il suo certosino lavoro di ricerca sul tema, e chiediamo aiuto a voi: mandateci via mail (all’indirizzo black |at| getblack.it) i vostri nastroni storici e le storie che ci sono dietro, salite in soffitta e tirateli fuori dagli scatoloni, soffiate via la polvere e date loro nuova vita spiegandoci cosa succedeva in quei giorni, cosa vi ha guidato nella scelta della scaletta, a chi l’avete regalato (o da chi l’avete ricevuto) e cosa ha significato per voi. Se volete armatevi anche di scanner e macchina fotografica, per farci vedere la grafica e far sospirare un po’ anche noi. 

Chi ci manderà il nastrone più significativo, in ogni possibile senso del termine, riceverà una copia di Mix Tape – L’arte della cultura delle audiocassette, grazie a ISBN Edizioni. Diversamente dal solito avete a disposizione una settimana (premieremo il vincitore venerdì 20 giugno), così avete tutto il tempo per recuperare i nastroni dai luoghi in cui sono finiti, o di contattare quella ex a cui avevate fatto una formidabile compilation nel ’96 per chiedergliela indietro (tanto l’ha ascoltata al massimo due volte, ormai lo sapete). Chissà che, da questo, non nascano altre storie da raccontare.

 

venerdì, 06 06 2008

Giovanni 11,1-46 2.0

 
 

 

 

 

 

***

 

 

Il piccione volava distratto, sfiorando pericolosamente alcuni passanti più bellicosi e rapidi di altri, una bici, un pioppo, un paio di suv, un lampione – il lampione chiaramente nemmeno si era mosso.

Con un paio di volute affannate riuscì a sollevarsi ancora ed a posarsi sul tetto dell’edificio, vicino all’insegna. Casaleggio ed., LTD, si leggeva, e sulla T spiccava un volatile sovrappeso. Il piccione valutò la situazione e decise di restare lì a meditare ancora un po’ sul da farsi, mentre tre piani più in basso Miscavige entrava nell’edificio. Il traffico intorno al Madison Square garden continuava indifferente.

 

 

***

 

“Cin”

“Cin”

“… davvero, non è questione di aspirazione alla frustrazione.”

“Mh.”

“Il punto è che Hank piace perché noi abbiamo già tutti i suoi difetti: pensiamo da anni alla stessa persona, non abbiamo mai sfruttato davvero le nostre capacità, siamo infelici e incapaci.”

“…”

“E la differenza è che lui oltre a questo è un donnaiolo ed uno scrittore di talento. Non si desidera l’infelicità, si desiderano le capacità.”

“E la possibilità di fare l’allegro cazzone a quarant’anni.”

“Sì, ma sul serio. Io ero un quarantenne quando ne avevo venti, a quarant’anni vorrei essere un ventenne.”

"Cinico e un po' stronzo?"

"Cinico e un po' stronzo."

“…”

 

***

 

L’odore è ancora troppo penetrante quando riapre gli occhi. Le palpebre sono pesanti, ed il sevoflurano ancora in circolo nei polmoni rende troppo difficile da sopportare persino la voce altrui.

“Parlate di meno, lentamente, faccio fatica”, riesce a dire dal letto alle due persone che gli sono accanto, che conversavano animatamente. Tacciono. Gli occhi che spuntano dalle lenzuola bianche e grezze dell’ospedale sembrano confusi.

“Cosa…”, cerca di dire, ma la fatica ha la meglio e ritorna a dormire.

 

***

 

“Quand’è che questo gioco è diventato più grande di noi? Che non siamo più riusciti a controllarlo? Per esempio… Ironman, l’hai visto Ironman, tu?”

“Beh, io…”

“Sai cos’ha scritto Strade dissestate? Cinquanta righe di elogio – alla sceneggiatura, agli attori, alla regia, agli effetti speciali, alle metafore – con un lunghissimo panegirico sul sottotesto morale. Tu l’hai visto, Ironman?”

“No, com’è?”

“E’ orribile. Si salvano gli attori e gli effetti speciali. La regia è scontata e la sceneggiatura fa ridere – dove non fa tristezza. È un elogio degli americani buoni e delle armi usate per giusti fini, inframmezzato da gag più o meno divertenti.”

“…e?”

“E quando è diventato normale il camp? Quand’è diventato encomiabile? Da quando Ironman è globalmente un bel film?”

“Io non…”

“Siamo noi che abbiamo legittimato tutto questo?”

 

***

 

Occhi aperti. Fatica. Occhi chiusi. Ecco, ora sì. Oocchi aperti. Bene. Pensieri da coordinare. Parliamo, proviamoci. Sorridono. Come sta. Sto bene, dico, o forse ci provo soltanto, forse farfuglio “OEEE” e lascio a loro lo sforzo di interpretare. Ieri febbre, mi dicono, capita, è normale. Adesso flebo, da domani mangia, non la voglio la flebo, già mi fa male tutto, non la voglio la flebo voglio solo dormire, dormire, dormire e ricordarmi perché sono qui e che cosa ci faccio.

 

***

 

Io al concerto dei Battles non c’ero. Non ero in città, se ci fossi stato ci sarei andato.

Eppure lo so, come era quel concerto. Era un frullatore: elettronica, math-rock, improvvisazioni di jazz acido, noise, tasti suonati a caso. Mi piace? Mi piace, è la mia posizione ufficiale, oramai io sono le mie posizioni ufficiali. Mi piace l’elettronica, mi piacciono i Battles.

C’ero al concerto? No, ma se necessario sì. Se dovessi potrei parlarne, ne ho viste a decine di concerti così, non fa nulla che non fossi davvero sotto il palco a vedere Ian Williams che ballava sghembo con la sua chitarra violentando sincopatamente la tastiera.

Se dovessi potrei parlarne, io il concerto dei Battles l’ho visto anche se non c’ero.

 

***

 

“Ben svegliato.”

“Ciao…”

“…David.

“Ciao, David.”

“Ricordi?”

“Niente.”

“Normale. Domani comincia il tuo training. È stato così per tutti, stai reagendo bene. Beppe abbiamo dovuto legarlo il primo giorno”

Beppe. “Beppe…”

“Sì. È normale, te l’ho detto, non sei il primo. Dormi, riposati, domani ti spiegheremo.”

Dormo.

 

***

 

E non lo so fino a che punto è stata una scelta voluta e quanto invece le cose si sono impossessate di me. Fisso lo schermo e non riesco a rispondermi.

Io ci lavoro, davanti a quello schermo. Ci passo le giornate, mi sono detto, tanto vale dedicarci anche il tempo libero, mi ci trovo. Così – twitter, myspace, anobii, lastfm, flickr, non ricordo più neanche dove ho veramente aperto un account e dove ho solo pensato di farlo.

E le cose si impadroniscono di te così, lentamente, un passo per volta. Cosa importa se dopo nove ore di lavoro passo ancora altre due ore davanti ad un LCD. Non mi costa fatica. Non mi dispiace.

Uscire? Ancora un feed, ancora un commento.

La ventola ronza silenziosa mentre la luce passa tra i contatti, costante ed indifferente a dispetto di tutti i fan di nerooogle del mondo.

 

***

 

Oggi è diverso. Lo aiutano ad alzarsi, a lavarsi, lo vestono. Ti gira la testa? No. Va bene un discorso più lungo? Va bene. Vieni con noi. Va.

La stanza è un ufficio asettico virato in bianco, un ficus stereotipato, qualche foto alle pareti. Il titolo di commodoro, una foto dell’attore che salta sopra i divani impegnato a promuovere Narconon.

Dietro la scrivania ci sono due sedie, sulle sedie due marionette, o due persone, è tutto ancora così buffo. Parlano, una in inglese ed una in italiano, spiegano.

Non ti devi preoccupare di nulla, ci pensiamo noi. Tu non ricordi, è normale, è tranquillo, è tutto scritto. Indicano dei fogli, gli puoi dare un’occhiata se vuoi, alle prime pagine, riconosci la grafia?

Il resto non lo leggi però, funziona così. Riconosce la grafia.

Da adesso andrà tutto bene, da adesso non sei più solo, ci pensiamo noi, non ti devi preoccupare di nulla. Non sei il primo sai, sappiamo già cosa fare, in questo momento stai vedendo Cai Guo Qiang al Guggenheim. Tranquillo, leggi e ricorderai. La gente, la gente si aspetta delle cose da te, tu non ne potevi più, quelle cose gliele daremo noi. Non ti devi preoccupare di nulla, è normale.

La conversazione dura troppo e le palpebre sono di nuovo pesanti ed il ficus è più difficile da osservare adesso ed una delle due persone in camice se ne accorge perché la conversazione termina così.

 

***

 

“Ehi.”

“Ehi, quanto tempo… Come va?”

“Ti ricordi l’anno in cui Julian Cope si tagliò sul palco? Ti ricordi i concerti al Velvet? Ti ricordi la prima volta che ti accennato del gruppo svedese che a maggio avrebbe suonato a Bologna, la prima volta che ti ho parlato di Gibbard?

“Che hai?”

“Sono stanco.”

“Lavori troppo. Ma non è questo. Mi spaventi. Che hai?”

“Niente.”

“Mi chiami dal nulla, parli a fiume, non è vero che non hai niente. Che hai?”

“Sono sempre stato così?”

“…”

“Seriamente.”

“Così come?”

“Dai che lo sai che voglio dire”

“Sì. No. Uff. Che vuoi che ti dica?”

“Non lo so”

“Sei sempre tu, io ti conosco da tanto. Però non sei sempre stato così. Non posso parlare comunque, sto lavorando. Mi chiami dopo?”

“Mh.”

“Mi chiami dopo?”

“Va bene.”

“Va bene. Ci conto. Stai tranquillo e poi ne parliamo.”

“Sì. Ciao.”

“Ciao.”

 

***

 

Poi per un momento mi è sembrato di ricordare. Ero sveglio, dormivo, non lo so. Cioè lo so, razionalmente lo so, si chiama allucinazione ipnagogica. Di solito succede che credi di svegliarti e rimani paralizzato. Urli e non ti sente nessuno. Hai visioni, probabilmente è così che la gente parlava con dio anni fa. Allucinazioni ipnagogiche. Eppure mi è sembrato di ricordare.

Scrivevo, avevo questo… avevo un blog. Mi chiamavo… mi chiamavo Fabiano Frangia. Sì, Fabiano. Mi pare. Scrivevo di musica, scrivevo, la gente… maledetta indeterminatezza dei sogni. Non era così. Mi chiamavo… mi chiamavo Filippo. Filippo Facci. Sì, questo me lo ricordo, Filippo Facci, il nome me lo ricordo. Scrivevo di tutto, la gente leggeva e commentava, male commentava, la gente leggeva e mi insultava. Filippo Facci. Oppure no, la gente mi insultava davvero? Eppure per un momento mi è sembrato di ricordare.

 

***

 

La gente balla comunque, se metto elettronica ucraina o quel pezzo che adoro che dice Then you picked the wrong place to stay. La gente balla comunque, lo fa da sempre qui, eppure mi sembra diverso. Mi sembra che prima ballassero di tutto perché erano curiosi di tutto, era il sapere aude della musica. Ora ballano di tutto perché tutto gli è indifferente, non sono qui per la musica, non sono qui per scoprire, sono qui ma potrebbero essere al Billionaire se fosse di moda il Billionaire.

Meglio quando ce la tiravamo in trenta, quando Meloy era un cognome come un altro? Chissà. E chissà quanti lo hanno detto di me quando sono entrato qui la prima volta, quando guardavo io l’uomo con il box dei dischi dietro il palchetto rialzato scegliere la canzone successiva. Where are your friends tonight?, continua a chiedere, ed io la risposta davvero non la so.

 

***

 

“Reagisce meglio del previsto.”

“Sì, ottimo soggetto.”

“Il team come sta andando?”

“Bene. I nuovi si stanno integrando con quelli scelti da lui. Un po’ troppo anarchici.”

“Pensi che…”

“Solo se necessario.”

“I nostri?”

“Firmeranno a suo nome. Alcuni già lavoravano per…”

“Sì, chiaro.”

“E per Antonio.”

“Mh.”

“Cosa?”

“Ce n’era davvero bisogno?”

“Lo sai anche tu che non ho fatto niente stavolta, è stato lui”

“Sì, ma…”

“Sarà utile, non ti preoccupare.”

 

***

 

Ieri ho passato il limite. Dal nulla hanno cominciato a parlarmi in tre su googlechat. Ho detto che stavo uscendo e ho salutato tutti affrettatamente.

Poi mi sono deciso, non ne posso più, ci pensavo da un po’. Basta, davvero.

Sono andato alla libreria e l’ho preso. Il web è morto, viva il web. Non ho potuto fare a meno di ridere. Com’è ironico il fato, i segnali che ci manda quando si diverte a prendersi gioco di noi.

Ho controllato la quarta di copertina mentre cominciavo a premere i numeri sulla tastiera.

 

“Pronto?”

“Gianroberto?”

“Chi parla?”

“Mi chiamo Francesco. Però scommetto che conosci il mio blog. Vorrei proporti un patto. So come funzionano le cose, vorrei farne parte anche io.”

“…”

“Beh?”
“Non parliamone qua. Ci incontriamo per un caffè e ne discutiamo un po’, ti va?”

“Va bene.”

“Senti, se ci trovassimo d’accordo… ti piacerebbe vedere Sutton Square di persona? Sai, mi pareva che ti piacesse…”

“Sì.”

“Bene. Mi faccio sentire. Ciao”

 

***

 

Mi hanno lasciato quelle quattro pagine sul comodino. Francesco Fungo, c’è scritto grosso nella prima, e la grafia è la mia, il nome è il mio. Continua con una serie di dati inutili per una pagina e mezza. Salto. Leggo. Dipendenza, recupero, collaborazione, editore fantasma, amnesia indotta, 2.0. Rileggo, non ci posso credere. Io sottoscritto Fungo Francesco… non ci posso credere. Però comincio a sentirmi meglio. Respiro. Non ho neanche voglia di dormire.

Entrano, gli chiedo se posso tornare in quell’ufficio, devo chiedere una cosa. Nessuna sorpresa. È tutto normale, certo, non sono il primo, eccetera.

E adesso, domando. Adesso ci pensiamo noi. E se volessi aggiungere qualcosa? Puoi, chiaro che puoi. Beppe aggiunge sempre delle battute qua e là. E gli altri? Gli altri li hai scelti tu, da prima. Io? Tu.

 

You think over and over, "hey, I'm finally dead.”

 

Io. Va bene allora, scriverò qualcosa io, voglio sancire il passaggio, voglio marcare la differenza. Non esiste e non è mai esistito, è una vostra proiezione mentale, batto in terza persona come da protocollo, rido da solo adesso nella luce fioca della stanza, e altrove continuo, dopo 5 anni e mezzo, da queste parti comincia l'era due punto zero.

 

Tenetevi forte.

 

 

venerdì, 18 04 2008

Gente che dovreste conoscere

Stasera a Get Black vi presentiamo un paio di amici che dovreste conoscere.

 

Claudio, in arte Athebustop, è uno dei più interessanti nuovi cantautori in cui mi sia capitato di imbattermi recentemente. Dopo un po’ di demo e un EP autoprodotto, ha da poco partecipato alla compilation Tales from my pocket (in compagnia di Sara Lov, John Parish, Giovanni Ferrario, Uzi e Ari e molti altri) pubblicata dall’etichetta lussemburghese Panoplie. Un nome da tenere d’occhio, soprattutto per i fan di Damien Rice, Iron and Wine, Radiohead e affini. Stasera ci suonerà anche qualche pezzo live, in duo chitarra e violoncello.

 

Samuele Galassi è fresco autore dell’ottimo Tornerai ogni mattina, un romanzo che sta facendo molto parlare di sè. Una straordinaria capacità di giocare col grottesco in modo lieve, di mischiare Bill Murray e Bret Easton Ellis, il noir e Sclavi, di costruire una tragedia sulle piccole fissazioni e di ricondurla poi al quotidiano che, nella sua surrealtà, è forse ancora più drammatico. Un esordio eccellente. 

 

Stasera faremo 2 chiacchiere, ascolteremo della musica, parleremo delle rispettive produzioni (e le regaleremo, ovviamente) e capiremo che evoluzione avranno i loro percorsi artistici.  Ce li scegliamo bravi, gli amici.

[Dalle 21 sui 103.1 FM a Bologna, oppure in streaming, e tra qualche giorno in podcast.]

 

Athebustop – A wish (MP3)

 

venerdì, 30 11 2007

Get Black o la dura legge della radio

Bando alle ciance, questa volta sarò telegrafico, perchè di tempo per (stra)parlare ce ne sarà in abbondanza questa sera: dalle 21 a Get Black avremo ospite Gianluca Morozzi, prolificissimo scrittore per Guanda e Fernandel (Black Out, L’era del porco, L’abisso) che non ha bisogno di presentazioni. Faremo quattro chiacchiere sulle sue ultime produzioni, sul rapporto tra Emilia e Rock (che ha raccontato bene in L’Emilia o la dura legge della musica), su Bruce Springsteen (sui cui fan il nostro ha scritto Accecati dalla luce), su cosa voglia dire riuscire a vivere di scrittura in Italia, e sul rapporto tra la nostra terra, la sua opulenza alimentare e la creatività artistica che da sempre la contraddistingue; e -ovviamente- regaleremo un PACK con una nutrita selezione delle sue produzioni vecchie e nuove.

 

Come al solito ci trovate dalle 21 alle 22.30 sui 103.1 MHz in FM di Radio Città Fujiko per Bologna e provincia, oppure in streaming per tutti gli altri (e, dal weekend, in podcast dall’apposita pagina). SMS in diretta al 333 1809494, Mail black AT getblack.it. Devo dire altro?

 

mercoledì, 24 10 2007

L’ho sempre saputo

Come forse saprete, il sottoscritto non ha mai letto (nè ha intenzione di farlo) i libri della saga di Harry Potter. Libri che, fino ad ora, hanno venduto nel mondo circa 325 milioni di copie tanto che, tra quanti non li hanno mai letti, c’è anche chi -come Chuck Klostermann sull’ultimo numero di Esquire– ha paura di rimanere tagliato fuori.

Come forse saprete, una manciata di giorni, fa J. K. Rowling ha rivelato che uno dei personaggi centrali della saga del maghetto di Hogwarts, Albus Silente (Dumbledore, in inglese), era gay. Due giorni dopo è già spuntato fuori un sito (Dumbledore Pride) in cui vengono vendute t-shirt ironiche sulla cosa. Quattro giorni dopo le parodie impazzano per tutta la rete (come questa finta copertina di People), e le t-shirt vendute sono già a quota settemila.

….rimanere tagliati fuori? Naaaa.

 

lunedì, 06 08 2007

Un post a punti un po’ balneare

Da un paio di giorni sono in ferie e -come volevasi dimostrare- ora che avrei tutto il tempo del mondo per aggiornare questo posto con qualche contenuto decente, non ne ho affatto voglia; si vede proprio che mi sento in vacanza. Per dire: stamattina mi sono svegliato ancora prima del solito, sono uscito a fare una passeggiata al parco, e sono rientrato a casa all’ora a cui di solito ne esco assonnato. Una cosa che normalmente non mi sognerei di fare neanche di notte. 
Prima di scomparire offline per qualche giorno (non temete, prima di ferragosto torno, anche se sospetto che per un po’ il ritmo di aggiornamento sarà abbastanza rilassato), qualche segnalazione varia ed eventuale per chi ancora non è riuscito a fuggire dalle radiazioni degli schermi: 

 

_Venerdì scorso i 4 cavalieri dell’Apocalisse di Get black (il sottoscritto, Fabio, Francesca e Offlaga Disco Max) si sono riuniti per il Season Finale della prima stagione dello show acromatico in onda tutti i venerdì sera su Radio Città Fujiko, con una puntata delirante dall’argomento perfettamente in tema con il periodo. Il venerdì precedente il tasso di delirio era stato ancora superiore, perchè c’era ospite Antonio e parlavamo (tra l’altro) degli 883 (dettagli e complimenti da Disorder – grazie!). Come al solito, il tutto è scaricabile nella pagina dei podcast. E, in radio, ci si rivede a fine mese in diretta dal gabbiotto della Festa nazionale dell’Unità.

 

_Come annunciato, il concerto degli Offlaga Disco Pax di sabato all’Hana-bi è stato preceduto dal set dei folgoranti Don Turbolento, che hanno confermato tutte le promesse contenute nel loro EP facendo ballare la folla con la loro electro suonata, un’ottima cover sintetica di I wanna be your dog e un paio di piccole hit come Spend the night on the floor e Take it up. Date retta a me, ne vedremo delle belle.

 

_Letture da ombrellone – fumetti: ho trovato Ferragosto di Luca Genovese più claustrofibico di quanto il titolo suggerirebbe, ma visto il periodo è una lettura consigliatissima, meglio se un torrido pomeriggio, in una città deserta. Se poi non l’avete ancora letta, l’Antologia Vol.2 degli amici di Selfcomics rimane un must.

 

_Letture da ombrellone – libri: finito il deludentissimo La pioggia prima che cada di Jonathan Coe, mi sono gettato nel noir Pessimi segnali di Enzo Fileno Carabba (per ora avvincente, anche se non esattamente il mio genere), e mi aspetta il pluri-consigliato Un giorno questo dolore ti sarà utile di Peter Cameron e Avverbi di Daniel Handler, comprato solo per la copertina di Daniel Clowes e perchè lui è il fisarmonicista dei Magnetic Fields. Vi saprò dire.

 

_Visioni da ombrellone: in saccoccia i pre-air dei piloti di Californication e Chuck, entrambi su consiglio di Colas. Anche qui, vi saprò dire.

 

_Ascolti da ombrellone: nessuno dei due è esattamente da ombrellone, ma nell’ultimo paio di giorni mi sono finalmente appassionato ad un paio di dischi a cui non avevo ancora dedicato il giusto spazio: The stage names degli Okkervil River (forse migliore anche di Black Sheep Boy?) e Spirit if di Kevin Drew, già boss dei Broken Social Scene; entrambi eccellenti.
Poi ci sono alcuni advance italici che anticipano un autunno che pare caldissimo (previste uscite di: Amari, Disco Drive, Trabant, My awesome mixtape, Settlefish, Amor Fou, Fake P, presto speriamo Vancouver e Don Turbolento e chissà cos’altro…), ma se ne riparlerà, eccome se se ne riparlerà…

 

_Vi lascio con il già pluri-linkato nuovo singolo di PJ Harvey, che anticipa il nuovo White Chalk, in uscita a fine Settembre. Una scelta spiazzante, che dà a una corta e ipnotica (narcotizzata, sarebbe meglio) ballata per piano il compito di promuovere un disco che pare essere tutto su questa linea: poca o niente chitarra, pezzi corti e non esattamente facili, molto intimismo e poco rock’n’roll. Con queste premesse sarebbe auspicabile un ritorno alle atmosfere del suo capolavoro To bring you my love, ma sospetto che saremo un po’ più dalle parti dell’assai meno compiuto Is this desire?. Parecchi dettagli su Uncut.

 

PJ Harvey – When under ether (MP3)

 

mercoledì, 25 07 2007

Con molta, molta fantasia

[i personaggi di Charlie Brown ridisegnati in versione manga. Qui sopra Lucy, Linus e Charlie Brown, altri ancora (peggiori, se possibile) qui]
[previously: The Simpsonzu, la versione anime dei Simpson]

 

mercoledì, 02 05 2007

Una presa per il culo di 1200 pagine. O no?

Nel weekend, mentre pulivo la casa (ah, la Primavera! io odio la primavera), mi districavo tra le lavatrici e cercavo una disposizione sensata per i panni stesi, mi sono imbattuto nella mia copia di Infinite Jest. Il fatto che il voluminoso tomo di David Foster Wallace, a varie settimane dal termine della sua lettura, fosse ancora nella pila di libri di fianco al letto invece di trovare la strada della libreria come tutti gli altri, è un ottimo esempio della sensazione che mi ha lasciato. Dopo circa 4 mesi di rapporto conflittuale (ne accennavo qui e qui), segnato dall’impressione che si trattasse di un libro contemporaneamente geniale e tediosissimo, piacevole e ostico, perfettamente costruito e perfettamente alla cazzo, non sono ancora riuscito a capire se alla fine mi sia piaciuto o meno. Appena chiusa l’ultima pagina, ho pensato che si trattasse di una unica, enorme, presa per il culo; perchè anche se era assolutamente prevedibile che un libro del genere non avesse un vero e proprio finale, dopo 1200 pagine uno in qualche modo ci sperava anche. E invece niente, il libro finisce in un punto a caso, senza risolvere quasi nulla di quanto seminato in precedenza, e tutti a casa.

Ci è voluta la (spoilerosissima) voce di Wikipedia a farmi aprire gli occhi. La visione d’insieme (anzi, le visioni d’insieme) che dipinge, gli spunti nascosti dalla continuity sbriciolata che approfondisce, le nerdissime risorse che linka (come l’Index o la guida scena per scena) e i collegamenti tra personaggi, scene, concetti che ricostruisce, danno al libro la profondità che questo cerca fino alla fine di celare (riuscendoci), rivelandone la grandezza. E finendo per suggerire che un’opera del genere non possa essere valutata con le categorie normalmente applicate al romanzo, e che anche gli strumenti che si usano per interpretare la letteratura postmoderna in questo caso possano rivelarsi tragicamente parziali. Per apprezzarlo appieno bisognerebbe trattarlo come un film di David Lynch, come l’Ulysses di Joyce, o come alcuni cortocircuiti della Lost Experience.

A guardare in giro, non sono il solo ad averci messo tempo ad apprezzare Infinite Jest; ai tempi dell’uscita del libro, Dave Eggers lo recensiva su Might Magazine con impietosa sufficenza e più di una perplessità (testo completo qui), mentre ora, dieci anni dopo, lo troviamo a incensare l’opera nell’introduzione all’edizione del decennale. Un’introduzione (testo completo qui) che, per intenderci, dice cose tipo:

«It’s possible, with most contemporary novels, for an astute reader, if they are wont, to break it down into its parts, to take it apart as one would a car or Ikea shelving unit. That is, let’s say a reader is a sort of mechanic. And let’s say this particular reader-mechanic has worked on lots of books, and after a few hundred contemporary novels, the mechanic feels like he can take apart just about any book and put it back together again. That is, the mechanic recognizes the components of modern fiction, and can say, for example, I’ve seen this part before, so I know why it’s there and what it does. And this one, too—I recognize it. This part connects to this and performs this function. This one usually goes here, and does that. All of this is familiar enough. That’s no knock on the contemporary fiction that is recognizable and breakdown-able. This includes about 98 percent of the fiction we know and love.

But this is not possible with Infinite Jest. This book is like a spaceship with no recognizable components, no rivets or bolts, no entry points, no way to take it apart. It is very shiny, and it has no discernible flaws. If you could somehow smash it into smaller pieces, there would certainly be no way to put it back together again. It simply is».  [#]

 

«Questo libro è come un’astronave  senza componenti riconoscibili, niente viti nè bulloni, nessun accesso, nessun modo per smontarla. E’ molto lucida, e non ha difetti visibili. Se si riuscisse in qualche modo a ridurla in pezzi più piccoli, sarebbe sicuramente impossibile rimetterli insieme.»

Ci si è messo anche il formidabile genio, a prenderci per il culo?

 

lunedì, 16 04 2007

Conventional wisdom

Stavo considerando se ordinare Perfect from now on: how indie rock saved my life, libro del giornalista americano John Sellers (una sorta di versione indie di Klosterman, più o meno), quando sul suo sito mi sono imbattuto in questa lista:

TOP FIVE MUSICAL THINGS I HOPE HAPPEN NOW THAT THE ORIGINAL LINEUPS OF THE PIXIES AND DINOSAUR JR. HAVE REUNITED

1. Ian Curtis is resurrected.
2. The Smiths reunite for a private party at my favorite bar.
3. There is a new My Bloody Valentine album.
4. A new Nirvana comes along to blow away all of these fey Duran Duran emulators.
5. Radiohead stops listening to Pink Floyd and starts listening to Black Sabbath. [#]

Questo passaggio (oltre a non darmi il minimo indizio sul libro nè farmi capire se potrei aver voglia di leggerlo o meno) mi ha fatto pensare due cose:

• La maggior parte delle band citate da John Sellers non è, strettamente parlando, indie (anzi, sono quasi tutti major);

• Non mi viene in mente una lista migliore. Per caso è così anche per voi? Siamo davvero tutti delle fotocopie?

 

venerdì, 09 02 2007

Una vita da blogger

A volte capita che qualcuno mi chieda cosa ci sia di così bello nei blog. Per quale motivo mi trovo spesso a preferire chi racconta la cultura (dischi, libri, film) e la realtà (politica, società, tecnologie) in modo non professionale, nei ritagli di tempo della sua vita, senza dimostare particolari competenze (anche se spesso ce le ha) e senza particolari doveri di obiettività e completezza critica? La risposta, con le dovute differenze, e tralasciando ovviamente i riferimenti ai soldi e (e, purtroppo, in deficit di addette stampa dagli occhi da cerbiatta), me l’ha data Nick Hornby nell’introduzione al suo ultimo libro, in cui parla delle differenze tra la sua vecchia rubrica di recensioni e la sua nuova column personale raccolta appunto in Una vita da lettore. La chiave del successo dei blog e del social networking è tutta qui.

All’inizio della mia carriera di scrittore ho recensito molta narrativa, ma dovevo fingere, come è prerogativa dei recensori, di avere letto i libri fuori dal tempo, dallo spazio e dal mio carattere: in altre parole, dovevo fingere di non averli letti mentre ero stanco o nervoso, o bevuto; di non invidiare gli autori, di non avere una mia agenda di impegni, nè gusti estetici o problemi personali; di non aver già letto altre recensioni della stessa opera, di ignorare chi fossero gli amici e i nemici dell’autore, di non avere in corso tratative per piazzare un mio libro allo stesso editore, di non essere stato invitato a pranzo da un’addetta stampa dagli occhi di cerbiatta. Soprattutto, dovevo fingere di non aver scritto la recensione perchè mi servivano urgentemente duceneto sterline. Essere pagato per leggere un libro e per poi scriverne crea una dinamica tale da compromettere il recensore secondo ogni modalità possibile, nessuna delle quali gli è di aiuto. Perciò questa rubrica sarebbe stata diversa. Sì, d’accordo, anche qui mi avrebbero pagato, ma per scrivere di qualcosa che avrei fatto comunque, cioè leggere libri che già volevo leggere. E qualora avessi sentito che l’umore, il morale, i livelli di concentrazione, il clima o le vicende familiari avrebbero influito sul mio rapporto con un libro, avrei potuto e dovuto ammetterlo. [Nick HornbyUna vita da lettore (pag 9)]

venerdì, 22 12 2006

Inkiostro – I libri del 2006


3.
Chuck Klosterman – Il giorno in cui il rock è morto (Mondadori)

    Chuck Klosterman – IV. A decade of curious people and dangerous ideas (Scribner)

Niente da fare: dal punto di vista letterario il mio 2006 è stato segnato soprattutto dalla scoperta di Chuck Klosterman. Non è roba per tutti, il vecchio Chuck: cazzone ed egocentrico (come un blogger?), autore di interviste spudoratamente faziose a personaggi più o meno clamorosi dello star system, ed ennesimo alfiere di quei reportage sgangherati che da sempre ci rendono simpatica l'America, dà sui nervi facilmente; e se ne frega. Tra David Sedaris, Sarah Vowell e l'esistenzialismo pop del migliore Hornby, di Klosterman quest'anno è uscito in Italia il terzo libro Il giorno in cui il rock è morto e in USA la raccolta IV.
Il primo non mantiene il promesso reportage sui luoghi delle celebri morti del rock, ma è un fuoco di fila di riflessioni brillanti su musica, donne, arte e vita, arrivando (di sbieco) a risultati molto più alti di quelli che avrebbe potuto raggiungere seguendo la strada maestra. Un frammento e qualche altro dettaglio qui.
IV. A decade of curious people and dangerous ideas è una raccolta di interviste, reportage e columns pubblicate negli ultimi 10 anni su tutti i giornali su cui Klosterman ha scritto (tra i quali Spin ed Esquire). Interviste che riescono a far sembrare ugualmente interessanti Britney Spears, Billy Joel e Jeff Tweedy dei Wilco (ma in modo diverso), articoli che parlano di raduni dark a Disneyworld, crociere metal e rilievi statistici sulle cartomanti e columns che srotolano geniali teorie di cui, probabilmente, su queste pagine sentirete ancora parlare.
Le sue opere sono state definite «the perfect junk food for the soul». E c'è da abbuffarsi.

 

Compra:

Il giorno in cui il rock è morto

IV. A decade of curious people and dangerous ideas

 

 

 

2. Carlo Antonelli e Fabio De Luca – Disco Inferno (ISBN)

Nel mio mondo ideale, a scuola la Storia si studierebbe su questo libro. Completo, scritto da dio e clamorosamente ispirato, Discoinferno racconta la Storia del ballo in Italia dal 1946 al 2006, e partendo da qualcosa di presumibilmente irrilevante e classicamente leggero riesce a trovarvi la chiave per interpretare e raccontare 60 anni di società italiana come pochi hanno fatto finora. A volte si parte dalle parole dei protagonisti stessi (che sia un Primo Moroni in veste di amante del charleston, Amanda Lear, Gianni Boncompagni o Alioscia), più spesso dalla descrizione analitica e mai così rivelatoria degli spazi del divertimento, altrimenti dagli aspetti strettamente musicali sapientemente decodificati come linguaggio, per arrivare a spiegarci cose dei nostri genitori, zii, fratelli maggiori e di noi stessi qualche anno fa, oggi e forse anche in futuro, a cui nessuno ci aveva mai fatto pensare.
Ennesima, ulteriore, conferma che De Luca, già una delle migliore penne musicale italiane, per il solo giornalismo è sprecato. Ro-man-zo! Ro-man-zo!

 

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Discoinferno

 

 

 

1. A.M. Homes – Questo libro ti salverà la vita (Feltrinelli)

C'era una volta la Generazione X. C'era una volta una realtà ormai post-industriale e post-consumistica, fatta di persone che vivevano una vita dopo Dio senza nulla in cui credere, immersi in un benessere diffuso che toglieva ogni valore alle cose e alle persone.
Ci credevamo. Ma in poco tempo la cosa ha smesso di essere una novità, e perso tutto il suo fascino da naufragio emotivo è stata rimpiazzata da altro: dalla corsa tecnologica, dal villaggio globale, dal neo-spiritualismo, dai 15 minuti di celebrità garantiti a chiunque nella società dei media dopata da internet. La Generazione X è stata rimpiazzata da generazioni figlie di lettere di altri alfabeti, e ci siamo scordati che non abbiamo più nulla in cui credere.
Anni dopo, quasi dal nulla, arriva questo libro. Di tutte le persone, è proprio una secchioncella accademica newyorkese a ricordarci quello che siamo, e a prometterci che ci salverà. A. M. Homes, però, mente, e sa di mentire.
Il suo libro, invece di sanarle, non fa altro che scavare delle ferite nel vuoto pneumatico delle nostre vite; la cosa positiva è che lo credevamo ormai inscalfibile, e sentire male vuol pur sempre dire sentire qualcosa. La cosa negativa è che la sua innocenza piana che sa tanto di sadismo è il sale che rende quelle ferite davvero insopportabili.
Cara Amy Michael, questo libro non mi ha salvato la vita, nè tantomeno lo farà in futuro. Me ne ha tolta un po', invece, ma visto che non ci faccio poi molto, non è un danno grave. Mi ha dato qualcosa in cambio, però, e questa è la cosa davvero importante.
Libro dell'anno. 

 

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Questo libro ti salverà la vita

giovedì, 30 11 2006

Il piccolo isolazionista

In questo periodo cammino molto.

Infilo gli auricolari bianchi, rigorosamente non marchiati Apple per una sorta di buon senso anticonformista residuo degli anni del liceo, metto una giacca nera comprata qualche anno fa per pochi euro e una sciarpa di tre colori nessuno dei quali saprei definire e fendo il centro da una parte all’altra come un coltello.

Di prima mattina, quando il cielo è cupo, il sole -se c’è- freddo, e gli occhi faticano a stare aperti, di solito il mio bozzolo bianco contiene rock fatuo ed inutilmente entusiasta o indie-pop narcoticamente rassicurante nella sua prevedibilità, quasi a simulare un barlume di attività cerebrale che vorrebbe anche svegliarsi ma ha paura a farlo. Poi arrivo al lavoro, grugnisco un saluto ai miei soci che sanno che gli rivolgerò di nuovo la parola solo molte ore dopo, e accendo il computer. Un numero random di ore dopo saluto, mi infilo nell’ascensore e mi preparo ad altri 45 minuti di camminata, coi capelli mai abbastanza spettinati e lo sguardo di chi ha visto qualcosa di sconvolgente che non vuole raccontare. Il bozzolo bianco a quel punto contiene spesso e volentieri Silent Shout dei The Knife, ratificando la metafora del coltello di cui sopra in una simmetria troppo inquietante per essere meditata.

Le mie lunghe camminate soddisfatte e solitarie, col bozzolo bianco di Silent Shout e lo sguardo che attraversa i passanti ed è da essi attraversato, piacerebbero a Tommaso LaBranca, e in particolar modo alla sua versione confessional sfoderata nel corso delle 249 pagine de Il piccolo isolazionista. Nella sua, imperfetta, fusione di intimismo dichiaratamente a buon mercato, teorizzazioni di una metafisica pop sempre filosoficamente ineccepibili e divagazioni destrutturate che non avrebbero sfigurato in uno dei suoi leggendari blog, Il piccolo isolazionista fotografa le mie  inquietudini con una precisione che a volte mi spaventa. Certo, la musica non è la stessa, lo scenario periferico e metropolitano ha qui connotazioni di tutt’altro tenore e il tono dell’autore riesce sempre ad essere canzonatorio quel tanto che basta a non ricadere nell’autocompiacimento di cui commenti come quello che state leggendo, sono, invece, profondamente intrisi. Le differenze, però, non hanno altro effetto che quello di far risaltare ancor di più i punti in comune

Prima di tornare a casa, di solito, mi fermo al supermercato a fare la spesa. Mentre mi aggiro come uno zombie tra il reparto frutta e verdura e il pane, valutando attentamente quale prodotto sarà in grado di colmare il vuoto e di risollevarmi l’umore sul finire della giornata, non scambio parola con anima viva ma non riesco a fare a meno di osservare le altre persone e cosa i cestini della spesa svelano di loro.
C’è il vecchio che ha comprato solo confezioni di cibo per gatti.
C’è la signora di mezza età col petto di pollo e un po’ troppe bottiglie di Peroni.
C’è la ragazza che pare campare solo con insalata, Vitasnella e Filadelfia Light.
Ci sono gli studenti che questa sera banchetteranno con penne alle melanzane, lambrusco e saccottini.
Poi c’è un tizio anonimo, con lo sguardo perso, che ha nel cestino più o meno le stesse cose che ho preso io. Alzo lo sguardo, e mi accorgo che sto guardando la mia immagine, riflessa sul vetro degli sportelli del reparto surgelati. Non sono diverso da loro.
Prima di infilarmi di nuovo nel bozzolo bianco degli auricolari e di rimettere il pilota automatico per la strada verso casa, non posso fare finta che non sia così.

mercoledì, 18 10 2006

Berryserfs

Nel nome di un sacrosanto Di questo passo dove andremo a finire, Michele mi segnala che il nostro Douglas Coupland, come potete agilmente scoprire navigando qui, è diventato testimonial del Blackberry.
Coupland (il cui ultimo romanzo JPod -su cui mesi fa ho scritto un post di cui sono molto fiero- è appena uscito in Italia) fa bella mostra di sè in una serie di pagine che magnificano le capacità dello smartphone più stronzo di tutti i tempi, da sempre simbolo del businessman cool e pieno di soldi che non deve chiedere mai.
Certo, la Blackberry è canadese e Coupland ci tiene a difendere i tesori nazionali, e certo, il modello che Coupland pubblicizza (il Pearl) rappresenta un tentativo di raggiungere il ricco e sterminato mercato degli utenti consumer; si tratta, però, di attenuanti minime di fronte all’associazione coatta di un nome da sempre alfiere di un modo altro di guardare alle tecnologie con quello dell’oggetto che ormai simboleggia più di tutti il potere economico più chiuso ed esclusivo.
[Chè, poi, per dire, io non l’ho ancora capito quanto costa, in Italia o in USA, un Blackberry (e, soprattutto, il suo abbonamento)]
Si vede anche dalle piccole cose: lo stiamo perdendo.

giovedì, 03 08 2006

La fine dei Microservi

Non più di un paio di settimane fa, mentre facevo di nuovo notte al lavoro, mettendo mano ad alcuni seccanti bug last-minute e contemporaneamente discutendo coi colleghi di doppiatrici di icone hollywoodiane di serie B e del colore della cravatta che avrei indossato il giorno successivo (arancio), mi è arrivato un sms. Diceva «Ho chiamato a casa tua e mi hanno detto che sei ancora al lavoro. Volevi diventare un Microservo? Eccoti accontentato». La cosa mi ha fatto sorridere, perchè era al contempo vera e falsa, come quei sillogismi che partono da un’affermazione assurda per finire per dimostrarne una vera. Tutto incredibilmente couplandiano, metafora compresa.
Voglio dire, se ci pensi veramente.

Qualche giorno dopo aver scoperto di essermi ritrovato a pennello nello stereotipo del geek senza una vita, che cena da solo guardando i divx di vecchie puntate di Futurama e passa le serate a costruirsi competenze inutili, «un triste assemblaggio di influenze di cultura pop ed emozioni cancellate, guidato dal motore zoppicante della più banale forma di capitalismo», ho finito di leggere Jpod, ultimo libro di Coupland, presentato come seguito ideale ed aggiornato di Microservi. E lì la cosa si è fatta davvero ironica: quella che sulla carta doveva essere la ratifica e la celebrazione del valore artistico e generazionale del vecchio romanzo di Coupland è in realtà un requiem del suo modello (e del suo stile, e forse anche della sua utopia), in maniera tanto chiara e irrevocabile da risultare quasi dolorosa.

Chiariamoci: il libro non lo dice, mai. Ma il fatto che Jpod sia a conti fatti un libro deludente parla da sè. Non è una questione di esito artistico: nessuno ormai si aspetta più che i nuovi romanzi dello scrittore canadese abbiano la forza delle sue prime opere. La prima domanda che ci si fa leggendolo, alla fine, non è se sia un bel libro o no, ma dove e come si collochi nella partita tra Coupland e il mondo, tra il suo sguardo sagace e la prospettiva sghemba che riesce a dargli. Non dipende quindi dai personaggi per nulla tridimensionali, che ai problemi di interfaccia con il mondo reale dei protagonisti di Microservi fa succede invece bizzarrie gratuite variamente assortite che non portano il significato che vorrebbero nè alla vita dei personaggi nè alla loro caratterizzazione. Nè dal fatto che a un certo punto Coupland stesso compaia come personaggio del suo romanzo, mostrandosi come il cattivo di turno, cinico e approfittatore (psicologia del contrario, anyone?), e che proprio attorno a lui, a un certo punto, cominci a girare intorno il fulcro della vicenda, anche se per il lettore comincia ad essere davvero troppo. E sarebbe troppo facile fingere di non vedere in questa trovata una drammatica carenza di idee e tirar fuori qualche teoria su Coupland che si couplandizza, e ricorre all’espediente postmoderno definitivo come esito ultimo del suo percorso artistico. Siamo bravissimi a trovare giustificazioni, noi fan.

Coupland che si couplandizza è triste, e un po’ banale, questa è la verità. Se lo fa, probabilmente, è solo per tentare un inseguimento disperato di se stesso sull’infido terreno del romanzo postmoderno, a cui proprio lui una decina di anni fa ha dato tanto e che adesso (anche se non da ora) sembra averlo superato in maniera irrimediabile. Persino Eggers, a tratti, rischia di sembrare più convincente, e ho detto tutto. Non che la lettura non sia più che piacevole, comunque. Rimangono le mille osservazioni geniali, l’ironia caustica, le perle di intelligenza e l’acume spiazzante; non è poco, anche se da lettori di Coupland ci siamo talmente abituati da non notarlo quasi più. Il resto sono sottotrame molto più che surreali, gangster cinesi e scuole di ballo, coltivatrici di erba e lesbiche militanti col nome scritto in minuscolo, manager eroinomani e acquisti immobiliari citazionisti, che intrattengono il giusto ma palesemente non vanno da nessuna parte. Ripensando alla graniticità mascherata da frammentazione dei suoi primi lavori, è quasi doloroso procedere nella lettura e constatarne lo sbando narrativo, e prendere atto di un come sempre di grande qualità che non riesce a salvare un cosa decisamente carente di sostanza.

Che lo sbando narrativo sia voluto è difficile non pensarlo, come è difficile non pensare che più che la santificazione di un modello questa volesse essere la ratifica della sua morte, il funerale mascherato da omaggio, il requiem sotto le mentite spoglie dell’inno. E la cosa avrebbe potuto funzionare. Ma come spesso successo ultimamente, Coupland ha tentato di fare il passo più lungo della gamba, e ha tirato fuori qualcosa di drammaticamente irrisolto, che appare tanto più insoddisfacente quanto si mostra ambizioso in termini complessità paratestuale («3.14159265358979323846..»), ricchezza ipertestuale (www.jpod.info) e riferimenti intertestuali («Jpod updates Microserfs at the age of Google»). Se fosse l’opera prima di un giovane scrittore lo etichetteremmo come un esordio promettente ma irrisolto; dallo scrittore che ha dato forma alla Generazione X, ha raccontato in maniera brillante l’utopia dei Microservi e ha toccato la perfezione nello spietato ritratto delLa vita dopo Dio, era lecito attendersi qualcosa di più significativo. Di più: era doveroso.

Se non altro, però, si può tirare un respiro di sollievo.
La rivoluzione è finita.
Il romanticismo è andato.
Il glamour è passato altrove.
L’utopia è sbiadita.
Rimangono Ronald McDonald e il penis enlargement spam, le aste su Ebay che aggiornano le materie di Jeopardy e le disfunzioni alimentari, le bevande gasate e i computer che hanno un incoscio, le tastiere non standard e le tecniche per sopravvivere ai meeting di lavoro. Rimangono la carenza di tempo libero e le lievi forme di autismo altamente funzionale, gli occhiali strambi e i problemi di socialità, la sindrome del tunnel carpale e le inutili ossessioni for an accelerated culture.
Ci si costruisce così, al giorno d’oggi.
E tanto deve bastare.

martedì, 04 07 2006

Io sono un autistico

«After having worked at my current tech firm for the larger part of a year, I have come to the conclusion that my co-workers aren’t so much idiots as they are fellow citizens in the thrall of various modes of persistent low-grade autism.
The clinical definition is that they are suffering from mild versions of "pervasive development disorders" or "sensory integration dysfunctions". Asperger’s syndrome is one variant that has recently garnered much media hype. People with this sort of condition are known as "high functioning" autistics because they can more or less operate in the day-to-day world. Some people like to think of high-functioning autism as a trendy disease. Wrong. It is not a disease, it’s a condition. Most high-functioning autisticts resent being talked down to and value their condition. It is not a badge of victimhood for them – it’s merely who they are.
Perhaps the broadest way of understanding the world of the high-functioning autistic is to treat all stimuli that impact on the human body not as sensory input but as information bombardment. Most people are able to sift out the day’s excess information without ever thinking about it, but to the tech worker exhibiting autistic – ok let’s just say the word: geek – to most geeks, a hug is not a hug, it’s the fisical equivalent oh holding a novelty marine foghorn up to the hear and blasting it directly into the central nervous system. When you hug a geek, you’re overloading them in a manner they find intolerable. They feel and express shock and revulsion when touched.»
(Douglas Coupland, Jpod, Bloomsbury 2006, p. 290)

venerdì, 16 06 2006

La perfetta via di mezzo tra uomo e libro

[Le solite librerie dei miei sogni: questa si chiama Bookman]

lunedì, 12 06 2006

Dio è morto, il rock è morto e neanch’io mi sento troppo bene

«Com’è andato il viaggio? Riuscirai a scrivere un pezzo appassionante che analizzi a fondo la perversa ma innegabile relazione tra celebrità e mortalità? Il tuo racconto illustrerà il modo in cui la società rende affascinante la morte al fine di perpetuare la speranza che la morte legittimi la vita? Sarai in grado di dimostrare che vivere è morire e che stiamo tutti morendo in ogni istante della nostra vita?»
«Non ne sono sicuro» rispondo.
«Credo che dovresti farlo» dice Lucy Chance in tono inespressivo.
«Be’, l’idea era quella» dico. «Ma sai una cosa? Dopo che avrò scritto questo pezzo per "Spin", credo che lo svilupperò per farne un libro. Perchè è evidente che ho pensato parecchio a Diane, e che ho visto Lenore quando ero nel Minnesota, e che poco prima di vedere Lenore avevo fatto conoscenza con quella ragazza rock incredibilmente audace che si era arrampicata su un tetto a Minneapolis, e che ho conversato con quella interessante cameriera del North Carolina che legge Kafka ma non conosce gli Allman Brothers, e mi è appena successa questa cosa completamente folle con Quincy. E all’improvviso mi sento come se fossi stato all’interno di una macchina per mille anni, ad angosciarmi per le donne e a pensare alla morte e ad ascoltare i KISS e i Radiohead e tutte queste altre stronzate, e, per qualche ragione, continuo a scrivere queste cose ma senza sapere il perchè. Ma mi sembra tutto la stessa cosa, sai? Mi sembra che l’amore e la morte e il rock’n’roll si fondano sulla medesima esperienza.»
«Chuck, per favore, non scrivere un libro sulle donne di cui sei stato innamorato.»
«Perchè no?»
«Perchè è da profittatori. E da narcisisti. E un po’ da disperati, perchè dà l’idea che non riesci a sganciarti dal passato.»
«Ma è esattamente così» dico. «Non posso sganciarmi dal passato. Non riesco a disinnamorarmi di nessuna di queste donne. Posso solo esistere nel passato e nel futuro.»
«Lo so, lo so. Ne abbiamo già parlato. Ma chi vuole leggere un altro libro su un tossico ossessionato dalla morte che ascolta i Fleetwood Mac e sublima le donne che l’hanno fatto impazzire? A me sembra un’idea piuttosto discutibile. Diventerai l’equivalente maschile di Elizabeth Wurtzel.»
«Cristo, Lucy. Gliene vuoi davvero a quella stronza.»
«Voglio solo che sia attestato il fatto che trovo l’idea di scrivere un libro del genere assolutamente discutibile.»
«Ma se non scrivo il libro, questa conversazione non sarà registrata da nessuna parte. Il tuo sdegno potrà trovare espressione solo se faccio il contrario di ciò che mi consigli.»
«Bene, allora» dice. «Ma non venire a lamentarti con me quando quei cretini de blogger scriveranno cose di questo genere: "In fin dei conti, l’autore avrebbe dovuto dare ascolto alla sua amica Lucy Chance"; perchè sai che succederà .»
«Vero» dico.
«Sto solo cercando di essere la voce della ragione» dice Lucy. «Non capisco perchè tu voglia produrre un libro di nonfiction che sarà sfavorevolmente paragonato ad Alta fedeltà di Nick Hornby.»
«Be’, se menziono questa possibilità, forse non succederà. »

Il giorno in cui il rock è morto di Chuck Klosterman (Strade Blu, 15 €) è un gran libro. Oltre al passaggio che avete appena letto contiene un geniale paragone tra le relazioni della sua vita e i membri dei Kiss, le più intelligenti riflessioni che io abbia mai letto sul significato assunto dalla morte di Kurt Cobain, un inatteso e calzante collegamento tra Kid A e l’11 Settembre, un sacco di pensieri sulla musica e sul guidare (e sulla musica per guidare), una breve ma eccellente pagina sulla musica e il suicidarsi (e sulla musica per suicidarsi), parecchie camere di albergo, svariati incontri bizzarri, un sacco di riflessioni sulle donne, una moderata quantità di sesso, una più cospicua (ma sempre moderata) quantità di droga e -come ormai avrete sicuramente capito- una montagna di rock’n’roll.

giovedì, 13 04 2006

La bella vita

Scrivere su una tragedia realmente accaduta è difficile. Ma dai. Scrivere un romanzo, su una tragedia realmente accaduta è ancora più arduo. Soprattutto, ovviamente, se la tragedia è ancora vicina. Ma ancor più difficile se questa tragedia è l’attacco terroristico dell’11 Settembre; l’ evento chiave dei nostri anni, iper-mediatizzato e rivestito dei significati più disparati, pare ormai suscitare quasi esclusivamente discorsi intrisi fino al midollo di retorica e banalità.
Non che non sia possibile parlarne in modo attento e originale, ovviamente (basta pensare a Molto forte, incredibilmente vicino di Safran Foer); per farlo bisogna però evitare la strada diretta, lasciare la tragedia sullo sfondo e far sì che la sua potenza si riverberi quasi da sola sulle vicende narrate. Per farlo bisogna parlare dell’11 Settembre esattamente nel modo in cui Il Caimano parla di Berlusconi: quello che viene raccontato non è l’evento o il personaggio in sè, ma ciò che ha prodotto sulla vita di persone più o meno comuni, che sia la perdita di innocenza e miopi certezze nella superiorià dell’american way of life o la miseria, economica, culturale, sociale, sentimentale dell’Italia nell’era Berlusconi. L’ultimo romanzo di Jay McInerney, The Good life (appena pubblicato in USA, e in uscita tra vari mesi in Italia con il titolo La bella vita) prova a prendere questa strada. Ci prova, e ci riesce.
Non ho mai capito perchè mi piaccia così tanto McInerney. Non può competere, per stile e personalità, con le grandi penne della letteratura contemporanea americana, e ha smesso anche da parecchio di avere l’appeal dello scrittore generazionale. Eppure, libro dopo libro, la sua prosa brillante e poco pretenziosa e le sue storie  tendenzialmente monotematiche finiscono per conquistare in maniera inattesa e riservare non poche soddisfazioni, compensando il valore letterario forse non eccelso con una solidità e uno spirito decisamente rari.
Come da copione,
la bella vita del titolo non ha a che fare con la Roma degli anni ’60 ma con la Manhattan di inizio terzo millennio; non ha che fare con attrici e paparazzi ma con l’alta borghesia della città più intellettuale e moderna d’America, in grado di essere contemporaneamente sia la capitale americana delle cultura che quella della finanzia. Un ossimoro che McInerney ha già esplorato in lungo e in largo, e da cui nonostante ciò riesce comunque a tirare ancora fuori qualcosa.
In The Good life tornano i protagonisti di Si spengono le luci (probabilmente il suo più bel romanzo -dopo Le mille luci di New York, di cui era tematicamente il seguito), ripresi, insieme ad altri personaggi, il giorno prima e quelli immediatamente dopo l’11 settembre. Giorni che cambiano molto, che vedono la nascita di una storia d’amore (la prima vera storia d’amore di McInerney, visto che il nostro di solito preferisce accanirsi sul suo naufragio), alcune scelte complicate e molti nodi che vengono al pettine. Il clichè delle coppie ricche e infelici che rischiano di sfasciarsi sotto i colpi della normalità e, contemporaneamente, dell’unicità dell’evento sembra terrorizzante, eppure il libro cresce con l’andare delle pagine e riesce a dipingere un ritratto convincente e avvincente della vita (bella o meno) che incontra la storia.
E alla fine non è chiaro -neppure dopo averlo letto- quale sia davvero la bella vita a cui si riferisce il titolo. L’incosciente ma infelice frenesia di fine anni ’90? O la nuova presa di coscienza di sè che segue la tragedia e costringe a rivalutare tutto? Per quanto mi riguarda, sospetto nessuna delle due; la minaccia che tutto ripiombi in normalità dopo appena qualche mese (un virus, la normalità) suggerisce che le cose siano ben più complicate. Se niente può durare, forse, tutto può durare. Non resta che capire come.

mercoledì, 22 03 2006

The music-loving novelist and the book-loving musician

Douglas Coupland vola a Roma per intervistare Morrissey.
Ed è già leggenda.

«To me, interviews are mostly about trying not to make the interviewer think I’m too much of an asshole. I think that’s the experience with most interviews these days, mine and most everybody else’s. Let’s face it, pretty much any info you need is already out there on Google. Interviews never go away any longer. They just pile up and up and up for the rest of time. If people want to know something about a subject, they can just find it themselves. All that remains is control of the asshole yes/no switch. Do you want an interviewer to flip it? Remember – if you don’t want people thinking you’re an asshole, it means you allow your interviewer to torture you. It all boils down to how strongly you believe in the totemic Sony.»

«And maybe what all this further boils down to is the fact that Morrissey is interview-proof. Don’t bother. He’s not an asshole and he’s not the Dalai Lama, but you could interview him for a thousand years and you’d learn nothing. And this is just fine.»