inchiostro

martedì, 21 03 2006

MacchemMuz

Di solito viene dato da tutti come un fatto assodato: l’Italia è un paese senza cultura musicale, in cui si vendono pochissimi dischi e ancora meno giornali musicali, praticamente nessuna band indipendente riesce a vivere con la musica e le più importanti manifestazioni del campo sono baracconate tipo il Festival di Sanremo e il Festivalbar. Anche se a occhio e croce io non sono così genericamente pessimista, la mia opinione in merito non è molto differente. E non lo ero neanche la settimana scorsa, quando per puro caso in edicola mi sono imbattuto in una nuova rivista musicale. Foto di Morrissey in copertina, riferimenti a Mogwai a alla Warp subito sotto, prezzo ridicolo (2 euro): accantonata la sorpresa (c’è un nuovo giornale musicale, già al terzo numero, e non ne ho letto niente in giro, possibile?) non ci ho pensato due volte, e mi sono portato a casa la mia copia di Muz.
Se una rivista osa uscire in un mercato così imballato, in cui non muore una testata da anni (tengono duro pure Jam e il Buscadero) e negli ultimi due anni ne sono nate almeno due nuove (Rolling Stone e Losing Today, per non parlare della mutazione di Musica in XL), che sono andate ad aggiungersi alle varie già esistenti (Il Mucchio, Rumore, Blow Up, Rockerilla, senza parlare poi dei vari Rockstar, Rocksound, Tribe, ecc) e che trattano con tagli diversi una buona porzione di cose in comune, sicuramente questa dev’essere una rivista con i controcoglioni, ho pensato.
Non proprio, ecco. Diciamo che Muz non è molto diversa dalle altre. Solo, più corta. Più bruttina. Un po’ meno avanti. Un po’ meno interessante, in definitiva. Ricorda un po’, per formato e impaginazione, i numeri meno brillanti del vecchio Mucchio settimanale; senza la politica e senza le firme, e con 10 anni di ritardo. La grafica è a dir poco spartana, i nomi dei collaboratori –
a parte quello di Valerio Corzani- non suonano noti (il che non sarebbe necessariamente un male), i contenuti non sono esattamente originali e l’unico sussulto lo danno i nomi bizzarri delle rubriche. Tipo Gli orrori del cuore (Come imparare a non preoccuparsi e ad amare dischi che tutti odiano), L’urlo del coyote (dedicata a musicisti morti e band sciolte, presumo) e l’assolutamente improbabile Abbecedario, ovvero Deleuze e le storie tese (giuro).
In conclusione,
non è che Muz sia un brutto giornale; un po’ inutile, semmai, ma è agli inizi e magari migliorerà. La sua esistenza, però, che sfida le leggi del mercato e quelle del buon senso, non può che essere un po’ inquietante. In fondo è comunque qualcosa.

martedì, 14 03 2006

Le cose che ci fanno intelligenti

Mi sono avvicinato all’ultimo libro di Steven Johnson (già linkato già la settimana scorsa per il suo commento su Lost) con molta speranza e un po’ di paura. Dall’autore dell’ottimo Interface Culture non potevo non aspettarmi il solito brillante saggio in grado di usare scienze cognitive e media studies per riflettere sul mondo moderno e sulle tecnologie in quel modo laterale e mai banale che riesce ad essere al contempo sia scientificamente inattaccabile che piacevolmente divulgativo. Anche la paura, però, era ben motivata: cosa aspettarsi da un libro che, come da sottotitolo, mira a spiegare «perchè la televisione, i videogiochi e il cinema ci rendono più intelligenti»? Pochi luoghi comuni e un sacco di buone idee, questa -ora lo so- è la risposta.
Tutto quello che fa male ti fa bene è un libro che ribalta le prospettive, e non guarda tanto al cosa quanto al come, evitando di soffermarsi sulle banalità da rotocalco e sul facile catastrofismo da snob mediatico per concentrarsi sui processi mentali che stanno dietro al consumo dei diversi prodotti dell’industria dell’intrattenimento. Scoprendo cose inattese. La riflessione parte col piedi giusto, da Woody Allen:

In un film di Woody Allen di alcuni anni fa, che può ormai essere considerato un classico, Il dormiglione, un gruppo di scienziati del 2173 si domandava stupito come fosse possibile che la gente del ventesimo secolo non avesse compreso le straordinarie proprietà nutritive delle torte alla crema e delle merendine. Allo stesso modo, e senza essere gli scienziati del futuro di un film comico, oggi dobbiamo prendere atto di uno strano fenomeno: i videogiochi e la televisione ci rendono più intelligenti, anche se abbiamo sempre pensato il contrario.

Alla fine, dopo circa duecento pagine di ragionamenti, aneddoti, dati empirici e paradossi cognitivi, è difficile non essere d’accordo: The Sims, GTA, I Sopranos, i Simpson, 24, Dungeons & Dragons e il film de Il Signore degli Anelli sono ottimi esempi di come la complessità dei prodotti culturali di massa stia costantemente crescendo, e richieda risorse intellettive sempre più ingenti per essere apprezzata. Uno scenario che, benchè lontano dall’essere tutto rose e fiori, pare per una volta fotografare le cose dalla prospettiva che finora mancava, indicando una strada. Al riparo da ogni retorica.

mercoledì, 18 01 2006

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Berlusconi cita Morrissey?
Brillante articolo di Guia Soncini sulla settimana di passione delle ospitate televisive del Cavoliere. Assolutamente spassoso.
Anche se Morrissey si scrive con due s.

[via Emmebi]

lunedì, 10 10 2005

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Cinder and smoke

Come lasciava a intendere Emmebi giorni fa, tra qualche mese Frassinelli pubblicherà in Italia l’ultimo romanzo di Douglas Coupland, Eleanor Rigby. La notizia non mi sconvolge come potrebbe perchè: 1. l’ho già letto 2. non mi è piaciuto granchè 3. sono già proiettato nella spasmodica -e lunghissima- attesa del prossimo JPod, che uscirà nel Maggio del 2006 (qui la copertina). Non è
invece dato di sapere cosa ne sarà in Italia del suo penultimo libro, Hey Nostradamus (che ho letto e su cui ho scritto un paio di post più di 2 anni fa, qui e qui), che mi era piaciuto decisamente di più.
Questo resumè solo per dire che è Autunno ed è un periodo complicato, e come in tutti gli Autunni complicati da queste parti c’è un deciso bisogno delle parole di Coupland per tirare avanti. A proposito di ciò ho scovato un nuovo, devastante, mini-racconto inedito, Diamonds ans soot. Vi regalo il link, fatene tesoro.

mercoledì, 31 08 2005

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Aaah, da quando Guia non scrive più
Tra i soggetti preferiti di questo blog, agli albori della sua storia, c’erano due argomenti che, negli anni,
sono andati via via diradandosi: la pagina del sabato di Guia Soncini su Il Foglio e i tormentoni estivi. Sia l’una che gli altri, negli anni, hanno poi avuto un periodo un po’ sottotono, di alterne vicende ed alterna fortuna, e sono gradualmente quasi scomparsi da chiacchiere e cronache come anche dalla blogosfera. Ora Guia torna alla forma di una volta, e lo fa con un pezzo che proprio dalla cosa più simile a un tormentone estivo di questa stagione –Marmellata #25 di Cesare Cremonini- parte, per raccontare come al solito le deliranti vicende della Carrie Bradshaw nostrana. E lo so che la canzone ha un arrangiamento di una brutteza ai limiti del criminale e che la simpatia del suo autore è da sempre sotto il livello di guardia: eppure rimane una grande canzone. Io già lo pensavo da un po’; solo Guia, però, è in grado di spiegarlo così.

giovedì, 25 08 2005

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Super Size me (ma un po’ sempre la solita roba)
Ho comprato XL, il magazine
mensile nato sulle ceneri di Musica in edicola da oggi insieme a La Repubblica (con un euro in più; ma dal prossimo mese saranno due).
Primo sguardo. Carta patinata, formato gigante, Johnny Depp in copertina: è Rolling Stone.
Secondo sguardo. Rubriche scritte da celebrità varie ed eventuali (Vasco Rossi, Lucarelli, il Trio Medusa e parecchi altri; vedendone alcune come al solito verrebbe da pensare «a ciascuno il suo mestiere»), foto enormi, tanta pubblicità che sembra di avere in mano Io Donna, articoli di moda (anzi, di Stile): è Rolling Stone.
Terzo sguardo. Però, wow, ci scrive De Luca (è Rolling Stone!), c’è pure la Siri che parla, te guarda, di Pete Doherty e Kate Moss (bastaaa!), c’è addirittura un fumetto di 4 pagine di Daniel Clowes; mica male. E sfogliandolo non si può non notare quanto sia accattivante e ben fatto; più di Rolling Stone, probabilmente. Epperò per quanto possa anche essere piacevole, alla fine, XL è un po’ sempre la solita roba, già vista e rivista. Suppongo fosse folle aspettarsi qualcosa di nuovo proprio dal magazine gggiovane del secondo (o primo?) gruppo editoriale italiano; eppure, se non posso permettersi di farlo loro, chi può permetterselo? 

mercoledì, 17 08 2005

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Si legga un Blog, qualche sera
Ovvero: un post che e’ un Blob. Visto che da queste parti si torna da 4 giorni di musica, cascinali persi nella campagna toscana, scogliere in cui si entra da dietro e penne alla castellinese, e visto che si ha ancora a disposizione una manciata di giorni da spendere sbadigliando nella casa natìa prima di tornare al lavoro e non si ha voglia di fare nient’altro che dormire, passeggiare e ubriacarsi, sul blog si prosegue a regime minimo, e si pescano post e notizie in giro per la blogopalla italica, che fortunatamente non è tutta in vacanza come qualcuno vuol farci credere.
A Ferragosto ad esempio Valido
è stato nella zona industriale di Venezia a vedere il concerto dei Motorhead, e ce lo racconta come solo lui sa fare, con l’occhio clinico che ci ha gia’ raccontato di metallari, darkettoni e indie-kidz. Date retta a me, meritano la lettura. Prima dei suoi fasti veneziani, invece, la crew di Seconda Visione ci regala il suo solito l’anno che verrà: impagabili pregiudizi cinematografici come se piovesse. Frattanto Trentesimo Anno potrebbe mostrarci le sue diapositive delle vacanze ma non lo fa, e ci segnala solo che è morto il gigante di Big Fish, Francesca ha percorso l’autobahn romagnola alla ricerca dello spirito di Tondelli che ricordandolo tutti vogliono dimenticare, Woland è alle prese con una sconfortante lotteria di paese, l’impareggiabile Lonoise linka la première di Do you want to, nuovo singolo dei Franz Ferdinand (e io confermo la mia forte perplessità), e Mondo Oltro rischia di diventare famoso in tutto il mondo grazie allo scoop sulla liason tra Costantino Vitagliano e l’attricetta americana di basso lignaggio Tara Reid (ma lui non era gay?). Il tormentone mediatico del momento, però, in questo periodo sono gli aerei che cadono (non so voi, ma io preferivo i doberman assassini); al ritorno dalla Russia Garnant ha avuto paura di volare, e come al solito lo racconta perfettamente senza raccontarlo. Marina ha parzialmente cambiato idea sul nuovo disco dei Death Cab for cutie ma non ammetterà mai che sono stato io a fargliela cambiare; quando la discussione sul valore di questa o quella band si accenderà troppo, però, magari è il caso di andare a leggersi la teoria reazionaria sulla deperibilità del rock di Indiepop blog (che cominciava qua) e di pensiarci su per benino Alla fine della rassegna, ovviamente, non vi dimenticate di leggere il solo, unico e originale Blob of the blogs. Poi magari andate a farvi due passi, chè oggi, fuori, si sta proprio bene.

martedì, 09 08 2005

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Inkiostro – Palinsesto estivo
La vita dopo Douglas Coupland

Sull’ultimo numero di Pulp -di cui parlavo qualche tempo fa– c’è anche una bella monografia di 4 pagine su Douglas Coupland. Uno dei miei scrittori preferiti, se foste stati distratti gli ultimi 6 mesi.
L’articolo, scritto da Claudia Bonadonna, ripercorre tutta la sua produzione, a cominciare da Generazione X, il suo esordio, datato 1992.
Coupland è motlo bravo nel dipingere questo tableau vivant dell’apatia di una generazione di "profughi della Storia". Una generazione che ha fatto della confusione e della pigrizia il proprio credo, che ha introiettato la rabbia dei padri trasfrmando la rivoluzione in un cinico ideale interiore, che sguiscia veloce attraverso concetti e catalogazioni, e che resiste passivamente.
Il libro seguente è Shampoo Planet (1994, tradotto furbescamente da noi col titolo di Generazione Shampoo), definito un modo molto ben strutturato per raschiare il fondo del barile e gettare in faccia agli insaziabili reporter di trend giovanili gli avanzi scaduti del sistema. Un libro effettivamente minore, di cui però si nota il nucleo: La magnifica utopia della guerra civile dei padri (durante i mitologici anni ’60) trasformata in distopia dai figli, nel mondo esploso e cinico del presente. (…) Ma la reazione non è violenta. Al contrario è un lasciarsi ribollire con freddezza e spavalderia, è un ridersi addosso con spleen superiore, è un raccontarsi con leggerezza graffiante e pop.
L’unico passo falso dell’articolo è probabilmente il modo in cui viene trattato La vita dopo Dio (1996), forse il libro di Coupland che a tutt’oggi preferisco. Un libro di un’intensità e illuminazione tale che definirlo una riposante parentesi verso un ordine maggiore delle cose sembra davvero un crimine. Prima o poi mi metterò giù, e scriverò un post per spiegarvi il valore di quel libro.
Microservi (1996), altro capolavoro del nostro, è uno di quei libri di cui un blogger che si rispetti non può fare a meno: è infatti scritto in forma di diario minimo -più o meno come un blog- e parla di un gruppo di amici e colleghi che lavorano alla Microsoft. E’ un libro di una ricchezza impressionante, pieno di osservazioni semplici e geniali sul mondo e sulla vita, e la sua intelligenza continua a stupirmi. Rispetto ai libri precedenti, Microservi ha il sapore di una gioiosa metafora di apertura alla vita, di un ottimismo giocattoloso e vagamente sentimentale che prende teneramente in giro certe inclinazioni narcolettiche. Dan e i suoi compagni sono nerd, è vero, eterni bambini aggrovigliati in un reticolo di chip e byte, spasmi d’amore e problemi d’interfaccia con il mondo reale, eppure escono e vivono. Rischio di essere retorico, ma è un libro che mi ha davvero insegnato qualcosa.
Una raccolta di saggi, articoli e racconti sparsi, eppure decisamente organica: Memoria Polaroid (1997) è il ritratto dello spaesamento per un’epoca che ha consumato in fretta i suoi miti e perso ogni senso storico d’appartenenza. Per un mondo che vive sui ricordi effimeri delle istantanee e delle cartoline, che ripiega sulla memoria a breve termine, come la RAM di un computer.
Gli ultimi 3 libri di Coupland vengono liquidati, forse inevitabilmente, abbastanza in fretta. A parte il più ambizioso Fidanzata in coma (1998) –che fiorisce, a cominciare dal titolo, di citazioni tratte dal repertorio degli Smiths, mentre il resto della storia trascolora in un bizzarro (diciamo pure, per l’ennesima volta, postmoderno) e calibrato cocktail di fantascienza, favola, tragedia e commediaMiss Wyoming (2001) e il recente La Sacra Famiglia (2003) sono piccoli capolavori di plateale divertissment e di commistione spiazzante di generi, che regalano piacevoli ore di lettura ed una narrazione sagace ed acuta ma meno originale che in passato.
Un gran bell’articolo, per un autore che tra qualche decennio comparirà senza dubbio sui libri di letteratura. Consigliatissimi a tutti; sia Coupland ed i suoi libri che questa notevole monografia.
[9 giugno 2003 – qui]

   
   

mercoledì, 29 06 2005

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Erre come scompisciarsi
Niente ennesima dissertazione sullo strumento blog, e su come la (quasi) completa assenza di filtri all’ingresso permetta a quasi chiunque di esprimersi e, alla lunga, ai più bravi di ottenere almeno una parte dell’attenzione che si meritano. Roba trita e ritrita, buona qualche anno fa; questo post invece ha l’unico scopo di segnalare i fumetti di A come ignoranza che, atroci e cattivissimi (una sorta di Maicol e Mirco che incontrano i coniglietti suicidi), sono assolutamente impressionanti. A conquistarmi sono state in particolare le folgoranti vignette qui di fianco (e la serie che compongono) e questa gif animata; ma anche le storie di Personaggio inutile, della Signora Fletcher e di Diego e Adriana della Tim meritano la vostra attenzione.
[di nuovo grazie a Michele]

giovedì, 16 06 2005

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Come al solito Coupland aveva capito tutto
Ci siamo infilati in una discussione sulla parole "nerd". "Geek", naturalmente, ora è un complimento, ma non siamo sicuri di sapere cosa significhi "nerd". Mamma mi ha chiesto: "Qual è esattamente la differenza tra un nerd e un geek?"
Ho replicato: "E’ più difficile di quanto non sembri. E’ una differenza sottile. Instintiva. Credo che ‘geek’ implichi la possibilità di farsi assumere, mentre ‘nerd’ non significa necessariamente che le tue abilità sono al 100% vendibili. Essere geek implica benessere economico".
Susan ha detto che i geek, alle superiori, di solito sono dei perdenti che non hanno una vita propria; solo dopo, non avere una vita propria è diventato uno status symbol. "La gente come loro non è mai stata abituata a vedersi riconosciuta dalla società. Quello che spingeva la gente a prenderti a calci nel culo a quindici anno adesso è di gran moda, soprattutto se combinato con denaro sonante. Puoi ascoltare i Rush allo stereo della tua Ferrari mentre vai a comprare qualcosa di buono da mangiare da Il fornaio…con addosso i tuoi Dockers!"
Todd, con un intervento che non ci ha sorpresi affatto, ha aggiunto: "In questo preciso momento, stiamo vivendo la fase conclusiva della nostra storia, il momento in cui, nelle parole di Dio,
the meek shall inherit the earth, gli umili erediteranno la terra. E’ una concidenza che ‘geek’ faccia rima con ‘meek‘, umili? Penso di no. Un incidente provocato dall’evoluzione di un dittongo".
Mamma ha detto: "Oh, che tipi voi
ragazzi! Forse è solo che sono fuori dal loop".
Essere "fuori/dentro il
loop" è l’espressione più di moda quest’anno. Ci sono tre settimane prima che la frase diventi obsoleta, come un computer Apple Lisa. Il linguaggio è veramente una tecnologia.
[Da Microservi, ovviamente]

lunedì, 06 06 2005

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Ve l’avevo detto io

[Gli Offlaga Disco Pax sulla copertina di Rumore -in edicola ora- sono come la tua squadra che vince lo scudetto. Quante volte è successo che una band italiana che ha appena pubblicato il suo esordio sia sulla copertina del più famoso mensile musicale italiano già 3 mesi dopo? Sono quasi commosso.]

martedì, 24 05 2005

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Indie-yuppie è chi l’indie-yuppie fa
C’è solo una cosa più divertente dell’usare compulsivamente, e quasi sempre a sproposito, la parola indie, definendo cosa lo è e cosa non lo è come da queste parti spesso si fa: costruirci sopra delle teorie e lasciare che queste abbiano vita propria. Questo post racconta delle mirabolanti avventure del concetto di indie yuppie, nato come un gioco su un blog americano ed approdato persino sulle pagine del New York Post.
E’ cominciato tutto da un articolo del Columbia Spectator, in cui Adam Shore della Vice Records (l’etichetta americana per cui esce gente come Bloc Party, The streets, Boredoms e The stills) si lamentava:

"I feel like there has been created, in the past two to three years, an indie-yuppie establishment. Bands like Death Cab for Cutie, Iron and Wine, the Arcade Fire, Broken Social Scene, they are great bands, really great bands, with great albums, great songs, high quality. And to me, it’s just so fucking boring," he says. "It’s like fancy-coffee-drinking, Volvo-riding music for kids. And kids should be listening to music that shakes them up more, makes them uncomfortable."

Da noi il fenomeno è contenuto, ma in effetti in America la cosa sta assumendo proporzioni notevoli: tra The O.C., l’iPod, Pitchfork, Garden State, i blog, i Modest Mouse che vanno in top ten e gli Shins che vendono quanto Cristina Aguilera, essere indie non è mai stato così cool. E la cosa ha raggiunto anche tutti quei twenty e thirty-something relativamente benestanti, altamente autoconsapevoli e perfettamente integrati nella società, che una volta, erano semplici fan di Dave Matthews, dei Phish o dei Counting Crows, e che ora sono abbonati a Paste, criticano Pitchfork ma lo leggono tutti i giorni, portano spillette e t-shirt con frasi ironiche ma seguono anche -solo per ridere, ça va sans dire- ogni passo di Briteny Spears, Justin Timberlake o Gwen Stefani. Più che qualcosa che ha a che fare con l’autenticità della propria identità o con i semplici gusti, è un vero e proprio fenomeno sociale.
Molto appropriatamente, l’amo lanciata da Shore è stata prontamente raccolto da Mr. Stereogum, uno dei più letti e famosi indieblog americani, il quale ha subito rilanciato ai suoi lettori la sfida: qual è la perfetta definizione per l’indie-yuppie? La reazione non si è fatta attendere; nel giro di pochi giorni il suo post ha raggiunto i 300 e passa commenti, molti dei quali assolutamente divertenti, parecchi un po’ fuori fuoco (dedicati a descrivere un indie-modaiolo, indie-wannabe o indie-qualcos’altro più che un indie yuppie) ma tutti trasudanti umorismo e autoconsapevolezza da tutti i pori. Non è l’autoironia una delle principali caratteristiche dell’indie-yuppie?

Tra i migliori:
_You might be an indie-yuppie if the jeans you are wearing at the show cost more than the band that is playing is going to make.
_You might be an indie-yuppie if time reading Pitchfork ends up as a billable hour.
_
You might be an indie yuppie if you bought your BMW because of the iPod adapter.
_
You might be an indie-yuppie if you have a detailed plan for exposing your small children to music so that they might develop good taste.
_
You might be an indie yuppie if you go to the Arcade Fire show but leave after five songs because you have an early meeting the next morning.
_
You might be an indie-yuppie if you have a pair of glasses like Rivers Cuomo for fashion and a pair for reading.
_
You might be an indie yuppie if you get excited because the Gilmore Girls just name dropped your favorite band.
_
You might be an indie yuppie if you are both subculturally affiliated and and a functional adult.

Tra tutti partecipanti, è stata decretata vincitrice (un po’ discutibilmente, ma vabbè) Miss The 15 minutes hipster, che ha azzeccato la definizione perfetta, che mischia un elemento squisitamente indie (il vanto per la qualità e la lungimiranza dei propri gusti musicali) con uno assolutamente yuppie (una carriera da avvocato di successo):
_You might be an indie-yuppie if you import your entire iTunes library onto your work computer so you can share it on the network and show the other lawyers at your firm how hip you are.
A testimonianza dell’attualità del fenomeno negli USA, alla cosa è stato subito dedicato un articolo del New York Post (per leggerlo serve registrarsi), con tanto di Are you an indie-yuppie? test (che potete leggere qui), che indica in maniera piuttosto precisa le coordinate del perfetto indie-yuppie.
Io, da parte mia, sono un po’ confuso. Da un lato mi sembra che qui da noi si sia anni luce lontani da quel tipo di scenario, che trasuda una coolness che da queste parti è al massimo incomprensione e in cui si parla di carriere di successo che da noi, se va bene, sono onesti CoCoCo. Dall’altro, non senza una certa sorpresa, mi accorgo di rientrare in metà abbondante dei parametri che escono fuori dai post e dagli articoli linkati.
Non sarò mica un indie-yuppie anch’io?

martedì, 26 04 2005

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Review is a four letter word
Questi sarebbero dei grandi titolisti: non può non venirti in mente leggendo la Four Word Film Review. Titoli perfetti per articoli o post più che recensioni di 4 parole. I calembour si sprecano (quasi tutti intraducibili, ovviamente), ma spesso si raggiungono risultati assolutamente brillanti. Qualche esempio:
_Eternal Sunshine of the spotless mind: Erase Ventura: Past Defective
_Kill Bill: Good Bill Hunting
_Kramer vs Kramer : I bet Kramer wins
_Pever Pitch: High Infield-elity
_Titanic: The unsinkable happens
_2001, A Space Odissey: HAL is Windows 68
_Lost in Translation: Murray gets Scarlett fever
_Clerks : Dante’s Pique
Ma soprattutto:
_Star Trek III: The Search For Spock: Finding Nimoy

lunedì, 21 03 2005

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Le coperte di Linus
_Quando, una settimana fa, l’ho inserito nel Currently reading, ho immediatamente ricevuto due mail a riguardo. Non succede spesso.
_Ne hanno scritto bene praticamente ovunque, anche in luoghi in cui, di solito, di cose del genere non si parla.
_Tutto questo hype rischiava di farmelo diventare antipatico: quante volte un libro, un disco o un film finisce per sembrarci sopravvalutato solo perchè ne parlano tutti? Ma sono bastate poche pagine, per capire che questa volta non sarebbe successo.
_Da ragazzino leggevo un sacco di fumetti. Americani, giapponesi, qualcosa di italiano: da qualche parte a casa dei miei ce ne devono essere scatoloni pieni. Intorno ai 20 anni o giù di lì ho smesso; non ricordo perchè (le solite pippe del tipo ‘stai diventando grande’ le avevo già superate intorno ai 14 anni, quindi non c’entrano) ma è successo. E in momenti tipo questi me ne dispiaccio assai e faccio voto di ricominciare.
_L’ho iniziato una sera prima di andare a letto, ed erano quasi le 2. Nonostante l’obbligo di un’alzataccia la mattina dopo, alle 3 ero ancora lì, inchiodato dalle sue quasi 600 pagine. Anche questo non succede spesso. E, più che altro, non succedeva da tempo.
_Uno può imbrigliarlo in decine di definizioni: romanzo di formazione a fumetti, intensa e candida autobiografiapoetico ritratto fatto di piccole cose e mille altre, ma la verità è che Blankets di Craig Thompson bisogna leggerlo e basta. Non cambierà la vita, e non cambierà la storia del fumetto (nè le sue sorti come arte immeritatamente e snobbisticamente sottovalutata), ma vi lascerà qualcosa. Qualcosa che dopo, come fosse la coperta di Linus, vorrete tenervi ben stretto.

mercoledì, 09 03 2005

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Generazione di fenomeniBlog Generation
E’ passata una settimana dalla sua uscita nelle librerie (un’eternità, per i tempi di un blog), e ancora pochi ne hanno parlato. Di per sè la cosa è strana, ma a ben guardare non stupisce affatto; perchè Blog Generation di Giuseppe Granieri, pubblicato il 3 Marzo nei Saggi Tascabili Laterza, non è il solito libro sui blog. C’è stato il momento delle pubblicazioni introduttive, quello dei racconti più o meno privati (Mondo Blog di Eloisa di Rocco), delle raccolte di post (BlogOut) e quello dei racconti scritti da blogger (La notte dei blogger); ora è il momento di fare una valutazione approfondita della rilevanza tencologica e -soprattutto- sociale di uno strumento che si è rivelato così potente.
Già col suo blog Granieri ci ha abituato al binomio dissertazioni teoriche di altissima qualità / stile leggero e brillante, e ovviamente Blog Generation non è da meno. Tutt’altro: la sua analisi (più o meno sociologica, massmediatica e tecno-umanistica, a seconda dei momenti) si colloca sulla scia di autori come Steven Johnson, Derrick De Kerchovee e Pierre Levy, pionieri nello studiare e nel divulgare come e quanto ogni nuova tecnologia finisca per cambiare la nostra vita e la nostra percezione della realtà. Tra social networking ed economia dell’attenzione, rapporto tra media e democrazia elettronica, politica del linking e semplice pratica quotidiana, con poca polemica e molta riflessione.
Qualcuno ne sarà annoiato, qualcuno ne sarà affascinato ma ci capirà ben poco, qualcuno ne contesterà il (pur misurato) entusiasmo di fondo, qualcuno starà lì a puntualizzare che la band svedese si chiama Radio Dept e non Radio Depts e che nella bibliografia Wittgenstein è scritto con una ‘i’ di troppo, qualcuno lo attaccherà per il semplice fatto che esiste e qualcun’altro lo ignorerà placidamente. A qualcuno, però, piacerà -e non poco. Come avrete intuito, io sono tra quelli.
[si può ordinare da qui]

lunedì, 24 01 2005

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Da dove cominciare?
Dal fatto che Douglas Coupland sta scrivendo il seguito del suo capolavoro Microservi, e che lo intitolerà JPod?
Dal fatto che non so come farò a resistere fino alla sua pubblicazione, visto che il suo ultimo romanzo, Eleanor Rigby, è stato pubblicato da poco?
Dal fatto che ha fatto coming out (via Violetta), e io ero pure convinto che fosse sposato?
Dal fatto che la sua conversazione con Naomi Klein sia di una noia mortale?
O dal fatto che sto leggendo Eleanor Rigby proprio adesso, sono arrivato quasi alla fine, e non mi sta convincendo neanche un po’?

martedì, 05 08 2003

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La Sacra famiglia è questa; quella era solo psicotica
Come sapete se leggete queste pagine da un po’, il titolo del precedente romanzo di Douglas Coupland, All families are psychotic, è stato inspiegabilmente tradotto in italiano come Sacra famiglia. Non sono stato il solo a chiedermi il perchè di tale bizzarro adattamento: il titolo originale era assai più carino, con quel retrogusto da saggio di serie B, e assai più adatto alla storia narrata rispetto al banale Sacra famiglia. Tanto più dopo l’uscita di Hey Nostradamus! (di cui parlavo già ieri), che -quello sì- parla di una famiglia in qualche misura sacra.
Hey Nostradamus, è inutile girarci attorno, parla di religione. Forse non l’argomento più attraente del mondo, ma, in molti modi, nulla di nuovo per Coupland. Già La vita dopo Dio parla di spiritualità e significati superiori (sotto forma di minimali prose poetiche assolutamente incantevoli), Fidanzata in coma rappresenta un punto di rottura con il passato, in cui l’autore mostra di aver iniziato ‘credere’ in qualcosa. Ma -anche lì- si tratta più della ricerca di una spiritualità personale e di un senso alla propria vita piuttosto che di ‘religione’ in senso classico. Hey Nostradamus! invece prende la cosa di petto, e parlando di gruppi religiosi, di anima, di aldilà, di Bibbia e di dogmi cristiani, l’esamina sulla lunga distanza.
Se mi chiedessero di cosa parla Hey Nostradamus! (su, chiedetemelo) risponderei: religione e rapporti genitori-figli.
Non mi ero mai accorto di quanto quest’ultimo argomento stia a cuore a Coupland. A ben pensarci, è centrale in quasi tutti i suoi romanzi (su tutti Microservi e Sacra famiglia), molto più di quanto lo sia nei libri di molti altri autori contemporanei assai più nobili e di lustro. E non credo sia solo l’età e l’approssimarsi della maturità per Coupland ad aver reso questo argomento così importante: si tratta invece di una componente centrale nell’universo narrativo dell’autore canadese. Il mondo sempre più veloce e senza punti di riferimento che Coupland ha da sempre tentato di descrivere, in cui il benessere e le possibilità materiali di autorealizzarsi sono un dato acquisito, in cui ogni modello su cui basare la propria esistenza è già vecchio e in cui ogni generazione è costretta a mettersi continuamente in discussione, non può ignorare le figure dei genitori, spesso tragiche, ancor più spesso ironiche, ma talvolta eroiche nel rapporto coi figli, e con una realtà che li ha ormai lasciati indietro, fuori tempo massimo per cambiare significativamente la propria vita.
A questo punto, tutto torna. Il susseguirsi nei libri di genitori in crisi d’identità, costretti a reinventarsi un lavoro, una famiglia e qualcosa in cui credere, non è altro che la logica prosecuzione del discorso cominciato da Coupland con il suo primo romanzo, Generazione X. Quelli che prima erano visti come esempi di un mondo vecchio, con regole che hanno ormai smesso di funzionare, ora sono gli emblemi del mondo accelerato da sempre ritratto dall’autore canadese. Le cose cambiano, ma solo, come diceva qualcuno, per rimanere sempre le stesse.

lunedì, 04 08 2003

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God is nowhere / God is now here
La prima cosa che ho pensato non appena ho finito di leggere l’ultima pagina di Hey Nostradamus!, ultimo romanzo di Douglas Coupland da poco uscito negli USA, è stata: ce l’ha fatta anche stavolta, ‘sto bastardo.
Eppure, questa volta come non mai, sono stato dubbioso fino alla fine. La trama è insolitamente claudicante, il linguaggio meno brillante del solito, non ci sono nè l’intreccio ad incastri di Miss Wyoming, nè la densa poesia di La vita dopo Dio, nè la schietta quotidianità postmoderna di Microservi, e, fino alla fine, non sembra esserci nulla in grado di sostituirle. Un paio di giorni fa l’avrei descritto come un romanzo confuso, che non arriva al punto e che forse quel punto neanche ce l’ha (pointless, si direbbe in inglese), pieno di simpatiche ‘storie nella storia’ che sembrano volerti distrarre per non farti notare che l’impalcatura generale è assai scricchiolante. Poi, certo, si tratta di Coupland, ed il marchio di fabbrica, pur se un po’ appannato, non tradisce, e regala frasi intelligenti e situazioni paradossali quasi ad ogni pagina. Questo pensavo.
E invece niente: a due pagine dalla fine tutto si è fatto inspiegabilmente nitido, quasi luminoso, qualche pezzo è andato a posto (molti no, ve lo confesso), e Hey Nostradamus! è riuscito a colpire qualcosa dentro di me, facendomi addirittura commuovere. Non so come faccia, ma Coupland riesce sempre a scrivere dei finali straordinariamente commoventi, benchè la sua scrittura non possa essere definita tale e benchè il suo lirismo sia sempre nascosto sotto innumerevoli riferimenti minimi al mondo contemporaneo, metafore creative ed osservazioni sagaci.
Il romanzo segue una parabola speculare rispetto alla storia che racconta: l’inizio è di quelli promettenti -una strage scolastica in stile Columbine, con la narratrice, una ragazza molto religiosa segretamente incinta, a narrare la sua morte- ma man mano che il libro muta epoca e narratore la storia comincia a sfaldarsi, esattamente come la vita dei personaggi di cui racconta le vicende. A ben guardare, da quel punto in poi la trama non si ricompone più, ma comincia a vagare tra flashback illustrativi e personaggi per cui l’esistenza è ormai un tempo morto, disperatamente incapaci di risollevarsi dal vuoto che ne ha colpito le vite, e dall’impossibilità di trovarvi un senso. Il finale -le ultime dieci pagine, per la precisione- riesce nell’impossibile: dare un senso al libro. Non aspettatevi finali a sorpresa o rovesciamenti di prospettiva stile Il sesto senso, non è lo stile di Coupland, e tantomeno del Coupland di questo libro. L’unica cosa che potete sperare di capire è perchè la storia non può che essere vuota ed irrisolta, e perchè il messaggio di Hey Nostradamus! è proprio nel confronto tra la densa accoratezza delle ultime dieci pagine e la vacua mancanza di speranza che le precede.
Non vi biasimerei se, arrivati alla fine, per voi non fosse abbastanza. Ma per me, a due pagine dalla conclusione, in una frase che -a rileggerla ora- non ha nulla di speciale, lo è stato.

(continua)