Un discorso pretenzioso, in potenza. I tempi che cambiano, il mercato discografico che cambia, le cose nuove sempre meno piacevoli di quelle vecchie. O forse solo strategie di marketing più o meno improvvisate, che per una svista o la solita caccia al tesoro virale -non lo sapremo mai- rovinano il crescendo dell’attesa e ti recapitano un disco sull’hard-disk quasi prima che tu venga a sapere della sua esistenza.
Avrei voluto scrivere di quel percorso che cominciava già mesi prima dalle dichiarazioni fumose nelle interviste, poi le poche righe di news lacunose su Rumore che mettevano l’acquolina in bocca solo a leggerle, quindi le foto promozionali, con look nuovi o rughe inedite mostrate a tutti senza una parola, poi il singolo, che se andava bene c’era Planet Rock che te lo passava prima ancora che uscisse, e tu lo registravi su una TDK C90 e lo riascoltavi decine di volte voice-over compresi, quindi i lati B, e quello che la loro collocazione periferica sottintendeva, poi qualche volta persino il video, di solito di notte, dopo ore di attesa. Quando mettevi le mani sul disco, e a volte erano passate settimane dalla data d’uscita ufficiale (chè si sa che i negozi di provincia hanno i loro tempi), ti ci aveva portato una strada fatta di pieni e vuoti da colmare, che influenzava la tua percezione del disco almeno quanto la musica che questo conteneva, e a volte di più.
E’ per questo che i dischi che aspetti, quando ci metti le mani così, non ti interessano poi così tanto, e ti piacciono ancora meno? E’ per questo che le uniche cose che riescono a smuoverti sono le scoperte casuali? Esiste un valore assoluto che costringe all’attenzione a prescindere da date, supporti e strategie promozionali, o siamo schiavi delle condizioni di fruizione, e queste condizioni non ci piacciono più?
Grinderman (Nick Cave, Warren Ellis & co.) – Don’t set me free (MP3)
Grinderman (Nick Cave, Warren Ellis & co.) – Vortex (MP3)



Giusto per darvi un’idea dei livelli astrali di glamour che è in grado di toccare il tenutario del presente blog, candidato diqquà e linkato dillà, il momento più bello del mio weekend è stato guidare in mezzo al nubifragio lungo la A14 ascoltando gli Sparklehorse a tutto volume e pregando che la Società Autostrade (si chiamava così, una volta) quest’anno avesse deciso, per una volta, di non tagliare la voce dei costi relativa alla spesa in asfalto drenante. C’è questa canzone che si chiama Shade and honey (che era già uscita anni fa nella colonna sonora di un film che non ho visto, cantata da uno degli attori; non da Lou Barlow, però, che pure recitava nel film), che avrò ascoltato di fila circa 10 volte, perchè se una delle auto che mi superavano ai 190 si fosse trovata a sbandare e i suoi pneumatici Bridgestone avessero perso la tenuta di strada, mi sembarava un pezzo particolarmente bello per morirci su.
La fine dell’edizione di un festival che odora di fine del festival stesso arriva con una band che tutti danno sull’orlo dello scioglimento, e che ha intitolato il suo ultimo disco «L’ultima storia d’amore». Se è una metafora, solo un cieco non saprebbe vederla.
Tema: Descrivi un weekend di metà Luglio trascorso interamente a lavorare (sabato fino alle 23.30, per gradire), in modo brillante e divertente, e senza lamentarti.
Se passi buona parte di una radiosa domenica pomeriggio di metà Giugno chiuso in casa a sgrassare la cucina con Cillit Bang, buttando al vento con colpevole quanto non richiesta vocazione al martirio la metà precisa delle tue possibilità settimanali di mettere il naso all’aria aperta mentre il sole è ancora (o già) alto nel cielo, può essere che ci sia qualcosa che non va.
Ehi.
Questo weekend sono stato a Milano. La città della moda e del design, sì.