agosto 2006

giovedì, 31/08/2006

Quando si dice pestare una merda

Metti che una sera, prima di andare a dormire, ti metti a navigare un po’ e passando per certi m-blog americani che non sapresti ridire, finisci sul forum di un sito in cui, guarda un po’, si parla di musica indipendente, nuove uscite e cose così. Un’occhiata distratta prima di chiudere la finestra e passare a qualcosa di più interessante rivela un thread dal titolo promettente, che in men che non si dica si traduce in una notizia di quelle succose: il nuovo disco di Joanna Newsom, una delle portabandiera del nuovo vecchio folk più artsy e naif, nota per la perizia nel suonare l’arpa, per lo stile vocale a dir poco bizzarro (c’è chi l’ha paragonata ad Alvin and the Chipmunks, per dire) e per aver dato alle stampe uno dei dischi migliori del 2004 (The milk-eyed mender, uscito su Drag City) è stato diffuso illegalmente sul web con abbondante anticipo sulla sua data di uscita.
«Dov’è la notizia?», direte voi. La notizia è il modo in cui ciò è successo: pare infatti che il disco sia stato scaricato direttamente dal server web di Pitchfork, su cui qualcuno ha scoperto una cartella nascosta ma non protetta (questo il link, ovviamente non più attivo) contenente tutti i dischi recensiti dalla webzine quest’anno più varie altre primizie. Qualche migliaio di preziosissimi file musicali liberamente scaricabili da chiunque fosse a conoscenza dell’indirizzo web giusto; alla faccia delle violazioni del copyright, e della protezione contro non dico gli hacker ma anche solo gli smanettoni. Qualche testa rotolerà per questo, diceva qualcuno.
Detto ciò, dopo un paio di ascolti il disco di Joanna Newsom, intitolato Ys, pare davvero molto bello. Ok, la copertina forse è un po’ kitsch.

Ok, fare un disco di quasi 60 minuti fatto di sole 5 canzoni (la più corta è sui 7 minuti, la più lunga viaggia sui 17) forse è un tantino eccessivo. Ok, la voce è un po’ più inquadrata del passato e, benchè ancora bellissima, perde un po’ del fascino che aveva in origine. Ma l’atmosfera…beh, c’è poco da fare, è un disco dal fascino raro, che mischia le solite suggestioni tra fantasy e immaginario rinascimentale con qualcosa di vagamente più moderno (mi vengono in mente Danny Elfman e il suo lavoro sulle colonne sonore dei film di Tim Burton), vero e proprio storytelling in musica che non ha quasi più nulla a che fare col pop moderno e, ogni tanto, neanche col folk classico.
A dar man forte alla giovane artista californiana un dream team da paura: Steve Albini e Jim O’rourke  in cabina di regia, Bill Callahan degli Smog ospite ai cori e nientemeno che Van Dyke Parks all’arrangiamento degli archi. Che sono poi una delle cose più sublimi del disco.
Forse a Pitchfork hanno voluto farci un regalo, chissà.

Joanna Newsom – Monkey & Bear (MP3)

mercoledì, 30/08/2006

FujikoInCitta’

C’è qualcosa di molto strano nel tornare da una vacanza in cui l’unico contatto con la tecnologia è il susseguirsi di nastroni nell’autoradio e ritrovarsi immediatamente catapultati a mettere i dischi a tarda notte dallo Studio 42 di Radio Città Fujiko alla Festa dell’Unità di Bologna, con la gente che passa davanti al gabbiotto, saluta, balla, ascolta incuriosita gli interventi in voce e viene a chiedere i titoli delle canzoni. Un passaggio davvero straniante dal micro-mondo distratto in cui gli unici problemi sono arrivare in spiaggia e decidere dove andare a mangiare alla socialità forzata di chi, per la prima volta, si accorge che la radio ha un pubblico e può finalmente guardarlo in faccia, senza passare dal via.
Finchè il tempo me lo permette sarò quasi ogni sera da quelle parti (stand 42 alla Festa dell’Unità di Bologna, nel cuore della zona notturna della festa, esattamente davanti all’Estragon e all’adiacente spazio della Sinistra Giovanile), dentro o fuori dal gabbiotto della diretta o davanti o dietro lo stand del merchandising della radio (tra l’altro, sono finalmente disponibili le nuove magliette a tiratura limitata in occasione del trentennale). Oltre a qualche diretta più o meno random dall’acquario, il sottoscritto dovrebbe essere in console nella pista della sinistra giovanile domenica 3 dopo il concerto dei TV on the Radio (insieme al socio radiofonico Andrea NP), e mercoledì 8 dentro l’Estragon, dopo il concerto dei Mogwai (insieme ad Andrea NP e all’auctoritas Arturo Compagnoni e, con ogni probabilità, con i visual dell’amico MILF). Cercherò di non latitare troppo da queste pagine, ma se mi vedete meno in giro sapete il perchè. E sapete dove trovarmi.

Coordinate:
Festa dell’Unità di Bologna – Programma (PDF)
Estragon Summer Fest @ Festa dell’Unità – Programma (link)
TV on the radio – Wolf like me (MP3) 
Mogwai – Friend of the night (MP3)

martedì, 29/08/2006

Aller / retour

Più noioso del sottoporre gli altri all’interminabile proiezione delle proprie diapositive delle vacanze c’è solo il costringerli a leggere dei post che raccontano le suddette vacanze. Ho passato un paio di settimane assolutamente impagabili a zonzo per il sud della Francia; e ora sono tornato. 
Ci sono le valigie da disfare, 200 mail da leggere (in realtà meno della metà, al netto dello spam), 960 segnalazioni del feedreader, qualche altro giorno pigro da godersi prima di ritornare al lavoro, lo stand di Radio Città Fujiko alla Festa dell’Unità di Bologna da presidiare e un paio di serate di gran prestigio in cui mettere i dischi (i dettagli più avanti). Contando che sono appena tornato da posti bellissimi, direi che poteva anche andare peggio.

martedì, 15/08/2006

Come da copione

Me ne vado per un po’.

lunedì, 14/08/2006

Video Aggregator /Agosto

Phoenix – Consolation prizes (WMV)
Cari Phoenix, vi vogliamo bene e ci piacete non da oggi, e anche se l’ultimo disco è un po’ deludente, lo sappiamo bene che siete francesi, quindi non c’è bisogno che giriate mezzo video davanti alla reggia di Versailles.. Visto che questo è l’unico pezzo che si salva vi perdoniamo, nonostante lo stop-motion sia un po’ dozzinale e con un piccolo sforzo in più poteva uscir fuori una cosa anche carina. Non poteva girarlo la fidanzatina (e tra un po’ pure mamma) Sofia Coppola? Va già bene che non sia (di nuovo) il fratello, comunque..

Ok Go – Here it goes again (RM)
Come al solito con i video degli Ok Go la domanda è: ma quanto ci avranno messo a fare la coreografia? E quanto a fare una take intera buona? Domande senza risposta, ma il video, un delirio danzante questa volta a base di tapis roulant, è imperdibile come l’altro. Fateci il favore, cambiate lavoro, smettela di fare dischi ed entrate nel corpo di ballo di Buona Domenica. Ci guadagneremmo tutti.

Cat Power – Lived in bars (FLV) 
Finirà così per tutti, il periodo indie? Uno rimane per anni fissato con l’ipersensibilità, l’originalità a tutti costi e poi finisce qualche anno dopo a fare un disco roots e senza sugo che più insipido non si può e a fare video come questi, in cui dimostra di divertirsi come una pazza a qualche festa sudista in cui tutti sembrano usciti dal più classico dei clichè? Come già detto più volte, al sottoscritto sembra una fine ingloriosa. Eppure c’è pure gente a cui piace, pensa te.

Tunng – Jenny again (MOV)
C’è poco da dire sul nuovo singolo dei Tunng: il pezzo più canonicamente triste del disco, una ballata in cui l’ago della bilancia folktronica del combo inglese pende decisamente dal lato del folk, ha un video splendido. Un incidente stradale, un triangolo amoroso, una tragedia bucolica di periodi ipotetici dell’irrealtà e cose che erano e ora non sono più. Forse è il periodo, ma quasi mi commuovo.

Thom Yorke – Harrowdown Hill (MOV)
Bastano un po’ di effetti speciali poveri ma fantasiosi, qualche immagine di repertorio, nebbia e acqua e sfumature e barricate e falchi che volano e modellini di città, per la canzone più bella del disco solista del leader dei Radiohead? Dubito. Era un’impresa impossibile, e loro ci hanno provato. Io sarei rimasto più sull’essenziale (qualcosa tipo Rabbit in your headlights, per intederci), perchè in questo caso ai pattern ritmici, alla distorsione soffocata e alla splendida chitarra quasi funky del finale le immagini possono aggiungere ben poco.

Constantines – Working fulltime (MOV)
Ce li siamo scordati subito, i cloni degli Afghan Whigs canadesi, e forse a risentirli adesso non se lo meritavano. La passione c’è, il tiro anche, e vedere questo gran bel video forse le loro doti ne escono anche amplificate. Un buono spunto realizzato ottimamente, e il video si fa ammirare. Non la finisco mai di stupirmi quando vedo cosa riescono a fare le etichette indie americane con le -si suppoone- poche risorse che hanno. Quando ci sono le idee..

The Knife – Marble House (MOV) 
Mentre per motivi misteriosi il video di We share our mother’s health sta diventando un po’ di moda persino da noi, i The Knife guardano avanti e pubblicano già un nuovo singolo. Il corredo visivo è a base di topi antropomorfi e ambientazione da casa povera (assai poco di marmo) negli anni ’40. Che dite, vi ricorda già qualcosa? Chissà se hanno pagato i diritti a Spiegelmann..

Peaches – Downtown (MOV)

La Signora delle Pesche rimane sboccata e continua coi giochi di parole scollacciati, ma il sound è assai più ripuluto di un tempo, e l’immagine perde buona parte del rock’n’roll che aveva sempre avuto per tornare tra i ranghi di qualcosa che assomiglia persino all’r’n’b. Rimane un mediocre e sexy pezzo electro-pop un po’ ambiguo non troppo diverso da quello che finisce normalmente su Mtv. Ed era quella l’idea, mi sa.

Franz Ferdinand – Eleonor put your boots on (MOV)

Me l’ero persa, la single version tirata a lucido della canzone formerly known as la ballata beatlesiana dall’ultimo disco dei FF. Essendo l’ennesimo singolo estratto, ed essendo il video uno psichedelico (solo lui) delirio animato a base di montagne russe di Coney Island, statue della libertà e bimbe gotiche di nome Eleanor, se ne faceva anche a meno.

Mareva Galanter – Pourquoi pas moi (Ukuyèyè) (AVI) 

Come si fa a non innamorarsi di una bellissima ex miss francia che, presatata al mondo musicale, se ne esce con un disco trèees ’60s tutto yèyè, vestiti optical, mobili spaziali e coretti angelici (con, a guardar bene, pure un perverso retrogusto anni ’80 in alcuni arrangiamenti)? Un’operazione come quella dei Baustelle, senza però, nulla di intellettuale. Funziona decisamente meglio, va da sè.

Emilie Simon – Fleur de saison (MOV)
Sempre Francia, ma stavolta Francia digitale, per il nuovo video della pigolante aspirante Bjork d’oltralpe. Meno classicqamente pop dell’esordio, meno suggestivo della colonna sonora del documentario sui pinguini, più canonicamente artsy e, appunto, spudoratamente bjorkiano. Se non si considera che è una missione impossibile, è quasi carino.

[i vecchi Video Aggregator]

venerdì, 11/08/2006

Chi lo dice che drogarsi non è faticoso

E’ agosto, e se non siete già in vacanza o non avete da lavorare, probabilmente vi state annoiando. Da benefattore quale sono, eccovi il link a un gioco che vi permetterà di ammazzare qualche ora, e di bruciarvi qualche cellula cerebrale. Drug fiend è un adventure sulla falsa riga dell’ormai classica Crimson Room (e cloni), il cui scopo è consumare tutte le droghe presenti in casa. La cosa è assai più complessa di quanto sembra..

venerdì, 11/08/2006

Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me

[In tema con la notte di San Lorenzo: la Notte stellata di Van Gogh rifatta coi lego]

giovedì, 10/08/2006

Se il nome delle Pipettes vi fa ridere

Allora lasciate perdere questo post, perchè leggere di un gruppo che si chiama The Puppini Sisters potrebbe davvero essere troppo per voi. E se trovate ridicola l’estetica delle polka-dotted dolls più amate del momento, passate velocemente al prossimo post, perchè il look 40’s del nuovo trio vocale inglese potrebbe mettervi alla prova in maniera assai superiore. E se il bubblegum pop delle ragazze di Brighton vi fa venire il diabete, rimanete alla larga dagli mp3 delle sorelle Puppini e dal loro filologicissimo sound tra swing-pop e boogie woogie, al confronto del quale la musica delle prime è a dir poco punk.
Capeggiate dall’italianissima (bolognese, nientemeno) Marcella Puppini, le Puppini Sisters hanno l’aria di una cosa a metà tra un esperimento in provetta e la follia estemporanea di una sera che misteriosamente ha successo. Supportate da un contratto major (Universal) e da un conseguente dispiegamento di forze notevole (basta fare una navigata nel curatissimo sito -ci sono pure le Cigarette Cards!- per accorgersene), le Puppini Sisters hanno da qualche giorno dato alle stampe il loro esordio Betcha Bottom Dollar. Un disco davvero da manuale: arrangiamenti da grammofono riletti nello splendore hi-fi dell’era digitale, un repertorio che va dai classici del genere (Mr. Sandman, Sway, Tu Vuo’ Fa L’Americano, nientemeno) alle canoniche cover ’70-’80 (Panic degli Smiths, Wuthering Heights di Kate Bush, Heart of glass di Blondie, I will survive di Gloria Gaynoir) che come al solito un po’ funzionano e un po’ no, uno stile curatissimo a base di rossetto, completini alla Marlene Dietrich e costumi da bagno della nonna, e la personalità giusta per meritarsi un trafiletto su un femminile se non un articolo in piena regola a firma dell’Aquaro di turno.
Si sarebbe tentati di tacciarle subito di artificiosità conclamata e di bocciare a tavolino il loro boogie woogie buono per tutte le stagioni musicali, ma -almeno io- non ci sono riuscito. Saranno le armonie vocali assolutamente eccezionali, gli arrangiamenti curatissimi o le coreografie delle loro performance live tanto sincronizzate da essere ipnotiche, sarà quel qualcosa di grottesco e contemporaneamente molto british che emerge tra le pieghe del disco, sarà lo humour che lo pervade in ogni nota o la sua oltritudine troppo perfetta per essere vera, sarà il suo essere lontanissimo da qualunque modello anche solo vagamente hip (anche dall’indie, esatto) pur essendo un prodotto molto più che gradevole nonchè oltremodo vendibile; sarà quello che vi pare, ma le Puppini Sisters funzionano, e neanche poco.
Per il momento non lasciano il mio lettore, e di questi tempi è un risultato di tutto rispetto. E ora aspettate che si accorgano di loro: ho il sospetto che saranno ovunque.

The Puppini Sisters – Panic (MP3)
The Puppini Sisters – Wuthering Heights (MP3)
The Puppini Sisters – Sway (MP3)

[un post intero e neanche un gioco di parole sul loro nome, sto invecchiando?]

mercoledì, 09/08/2006

Chi lo dice che ad Agosto non ci sono news musicali

_Roba da leccarsi i baffi: Johnny Marr (ex chitarrista degli Smiths, chevvelodicoaffà) è entrato ufficialmente nei Modest Mouse.
_I Death From Above 1979 si sono sciolti. Proprio ora che con il disco MSTRKFRT ha rivelato di non essere esattamente quello che prometteva coi remix.
_Del folle e bellissimo tour ferragostano di Le man avec le lunettes + The rough bunnies (che mi perderò, ahimè) già sapete tutto, no? Quello che forse non sapete è che il loro split è davvero bellissimo, e merita l’ascolto e l’acquisto ad occhi chiusi. Se siete nel centro nord tra il 15 e 18 Agosto non perdeteveli, sospetto che saranno il tipo di serate per cui poi ci si pente.  
_Suzanne Vega non pubblica un disco da anni, eppure rimane una pioniera: non solo è, a modo sua, la mamma dell’mp3, ora è stata pure la prima artista della storia ad esibirsi esclusivamente in un mondo virtuale (Secondo life, per la precisione). Il tipo di cose che ti lascia assai perplesso (ora) e che chissà, tra qualche anno sarà negli annali.
_Britiney strafatta. O solo stupida.
_Prove tecniche di stagione 2006/2007: TV on the Radio, Mogwai, Final Fantasy, Midlake, Forward Russia, Two Gallants, The Kooks, New York Dolls tra i primi nomi che stanno spuntando fuori per la stagione concertistica bolognese del prossimo autunno. Non competono con Roma nè con Milano, ma del resto quando mai?

martedì, 08/08/2006

And the winner is

 

martedì, 08/08/2006

So let’s toast the last romance

La fine dell’edizione di un festival che odora di fine del festival stesso arriva con una band che tutti danno sull’orlo dello scioglimento, e che ha intitolato il suo ultimo disco «L’ultima storia d’amore». Se è una metafora, solo un cieco non saprebbe vederla.
Eppure forse è stato proprio questo clima da chiusura, reale o immaginaria che sia, a rendere questa edizione di Frequenze Disturbate un po’ speciale del solito. A riportare l’attenzione sulla musica e sulla location, spazzando via la patina di mondanità e di place-to-be che nelle ultime edizioni aveva trasformato quello che è -e che forse dovrebbe essere fiero di rimanere- un festival di provincia, in qualcosa di diverso.
E così ci sono stati degli Arab Strap letteralmente in stato di grazia (non si sciolgono, dai). Una tempesta di fulmini e un cielo post-atomico a incorniciare il bellissimo set dei Tunng (i migliori del festival, a detta di quasi tutti). Cat Power che come al suo solito perde ogni senso della misura e dopo una manciata di pezzi da panico (una Good woman da lacrime) sbraca orribilmente mettendo, come da copione, alla prova la pazienza dei presenti. Erlend Øye che passeggia da solo sotto il sole con un cappello di paglia, un sorriso a 24 denti e la faccia di chi letteralmente implora che qualcuno lo fermi per chiacchierare (e poi, sul palco, lascia abbastanza a desiderare). I Non voglio che Clara con quartetto d’archi che suonano benissimo ma troppo poco, e nonostante siano in apertura vengono pure richiamati sul palco per un bis. La crescia, e chi non ha il fisico per finirne una. Le salite, e chi non ha il fisico per farle. L’aria di casa.
Non so se quella che è appena finita sarà davvero l’ultima edizione. E non so nemmeno se sia stata sotto tono come poteva sembrare, e come a guardare i nomi in tabellone rischia ancora di sembrare. L’impressione è che DNA Concerti abbia deciso di non puntare molto su questa edizione, o che sia semplicemente stata sfortunata nella composizione del cast. Ne è uscito fuori un ridimensionamento forse inevitabile, forse voluto, che a qualcuno ha messo un po’ di tristezza e che invece a qualcun’altro non è dispiaciuto per come ha riportato il festival alle belle edizioni di 5-6 anni fa e al clima da best kept secret che si respirava allora. Un ridimensionamento che secondo qualcuno è il chiaro sintomo della fine di una storia unica e irripetibile per luogo, passato e atmosfera, e che secondo qualcun’altro è un modo per ricaricare le pile (e il portafoglio) in vista di un futuro tutto da immaginare.
Se è vero che non sarebbe la prima volta che Frequenze Disturbate reinventa se stessa, è anche vero che la fine, di tutte le cose, è sempre la più affascinante. Specie se c’è Aidan Moffat che ti invita a brindare all’ultima storia d’amore. E se tu, all’ultimo momento, decidi di spostare il bicchiere; e di augurare ancora una lunga vita alle tue frequenze disturbate.

lunedì, 07/08/2006

Otnemunom

[Top 10 most strange monuments. Alcuni sono splendidi]

lunedì, 07/08/2006

Intervallo

Il top della Leva’s polka experience: il Loituma clock.

venerdì, 04/08/2006

Cellphone’s dead, baby, so why don’t you kill me

Eggià, il signor Beck Hansen sta per tornare. A Ottobre il nuovo disco (ancora senza titolo), e qualche tempo prima il nuovo singolo, Cellphone’s dead. Il video è già stato girato a Giugno a New York da Michel Gondry, e da quel che è dato di vedere (foto qui sopra, e corredo qui) sarà iper-tappezzato e, inevitabilmente -visti i personaggi coinvolti-, geniale. Intanto studiamoci il singolo e l’altro inedito, i primi nuovi pezzi che circolano dai tempi di Guero (non esattamente bellissimi, dopo qualche ascolto; ma su Beck di solito cambio idea dopo qualche mese, quindi mi riservo di nominarlo anche disco dell’anno, se del caso), e stiamo a vedere.

Beck – Cellphone’s dead (stream rip) (MP3)
Beck – Think I’m in love (stream rip) (MP3) 

giovedì, 03/08/2006

La fine dei Microservi

Non più di un paio di settimane fa, mentre facevo di nuovo notte al lavoro, mettendo mano ad alcuni seccanti bug last-minute e contemporaneamente discutendo coi colleghi di doppiatrici di icone hollywoodiane di serie B e del colore della cravatta che avrei indossato il giorno successivo (arancio), mi è arrivato un sms. Diceva «Ho chiamato a casa tua e mi hanno detto che sei ancora al lavoro. Volevi diventare un Microservo? Eccoti accontentato». La cosa mi ha fatto sorridere, perchè era al contempo vera e falsa, come quei sillogismi che partono da un’affermazione assurda per finire per dimostrarne una vera. Tutto incredibilmente couplandiano, metafora compresa.
Voglio dire, se ci pensi veramente.

Qualche giorno dopo aver scoperto di essermi ritrovato a pennello nello stereotipo del geek senza una vita, che cena da solo guardando i divx di vecchie puntate di Futurama e passa le serate a costruirsi competenze inutili, «un triste assemblaggio di influenze di cultura pop ed emozioni cancellate, guidato dal motore zoppicante della più banale forma di capitalismo», ho finito di leggere Jpod, ultimo libro di Coupland, presentato come seguito ideale ed aggiornato di Microservi. E lì la cosa si è fatta davvero ironica: quella che sulla carta doveva essere la ratifica e la celebrazione del valore artistico e generazionale del vecchio romanzo di Coupland è in realtà un requiem del suo modello (e del suo stile, e forse anche della sua utopia), in maniera tanto chiara e irrevocabile da risultare quasi dolorosa.

Chiariamoci: il libro non lo dice, mai. Ma il fatto che Jpod sia a conti fatti un libro deludente parla da sè. Non è una questione di esito artistico: nessuno ormai si aspetta più che i nuovi romanzi dello scrittore canadese abbiano la forza delle sue prime opere. La prima domanda che ci si fa leggendolo, alla fine, non è se sia un bel libro o no, ma dove e come si collochi nella partita tra Coupland e il mondo, tra il suo sguardo sagace e la prospettiva sghemba che riesce a dargli. Non dipende quindi dai personaggi per nulla tridimensionali, che ai problemi di interfaccia con il mondo reale dei protagonisti di Microservi fa succede invece bizzarrie gratuite variamente assortite che non portano il significato che vorrebbero nè alla vita dei personaggi nè alla loro caratterizzazione. Nè dal fatto che a un certo punto Coupland stesso compaia come personaggio del suo romanzo, mostrandosi come il cattivo di turno, cinico e approfittatore (psicologia del contrario, anyone?), e che proprio attorno a lui, a un certo punto, cominci a girare intorno il fulcro della vicenda, anche se per il lettore comincia ad essere davvero troppo. E sarebbe troppo facile fingere di non vedere in questa trovata una drammatica carenza di idee e tirar fuori qualche teoria su Coupland che si couplandizza, e ricorre all’espediente postmoderno definitivo come esito ultimo del suo percorso artistico. Siamo bravissimi a trovare giustificazioni, noi fan.

Coupland che si couplandizza è triste, e un po’ banale, questa è la verità. Se lo fa, probabilmente, è solo per tentare un inseguimento disperato di se stesso sull’infido terreno del romanzo postmoderno, a cui proprio lui una decina di anni fa ha dato tanto e che adesso (anche se non da ora) sembra averlo superato in maniera irrimediabile. Persino Eggers, a tratti, rischia di sembrare più convincente, e ho detto tutto. Non che la lettura non sia più che piacevole, comunque. Rimangono le mille osservazioni geniali, l’ironia caustica, le perle di intelligenza e l’acume spiazzante; non è poco, anche se da lettori di Coupland ci siamo talmente abituati da non notarlo quasi più. Il resto sono sottotrame molto più che surreali, gangster cinesi e scuole di ballo, coltivatrici di erba e lesbiche militanti col nome scritto in minuscolo, manager eroinomani e acquisti immobiliari citazionisti, che intrattengono il giusto ma palesemente non vanno da nessuna parte. Ripensando alla graniticità mascherata da frammentazione dei suoi primi lavori, è quasi doloroso procedere nella lettura e constatarne lo sbando narrativo, e prendere atto di un come sempre di grande qualità che non riesce a salvare un cosa decisamente carente di sostanza.

Che lo sbando narrativo sia voluto è difficile non pensarlo, come è difficile non pensare che più che la santificazione di un modello questa volesse essere la ratifica della sua morte, il funerale mascherato da omaggio, il requiem sotto le mentite spoglie dell’inno. E la cosa avrebbe potuto funzionare. Ma come spesso successo ultimamente, Coupland ha tentato di fare il passo più lungo della gamba, e ha tirato fuori qualcosa di drammaticamente irrisolto, che appare tanto più insoddisfacente quanto si mostra ambizioso in termini complessità paratestuale («3.14159265358979323846..»), ricchezza ipertestuale (www.jpod.info) e riferimenti intertestuali («Jpod updates Microserfs at the age of Google»). Se fosse l’opera prima di un giovane scrittore lo etichetteremmo come un esordio promettente ma irrisolto; dallo scrittore che ha dato forma alla Generazione X, ha raccontato in maniera brillante l’utopia dei Microservi e ha toccato la perfezione nello spietato ritratto delLa vita dopo Dio, era lecito attendersi qualcosa di più significativo. Di più: era doveroso.

Se non altro, però, si può tirare un respiro di sollievo.
La rivoluzione è finita.
Il romanticismo è andato.
Il glamour è passato altrove.
L’utopia è sbiadita.
Rimangono Ronald McDonald e il penis enlargement spam, le aste su Ebay che aggiornano le materie di Jeopardy e le disfunzioni alimentari, le bevande gasate e i computer che hanno un incoscio, le tastiere non standard e le tecniche per sopravvivere ai meeting di lavoro. Rimangono la carenza di tempo libero e le lievi forme di autismo altamente funzionale, gli occhiali strambi e i problemi di socialità, la sindrome del tunnel carpale e le inutili ossessioni for an accelerated culture.
Ci si costruisce così, al giorno d’oggi.
E tanto deve bastare.

martedì, 01/08/2006

Lo sfogo del piccolo consumatore insoddisfatto

Sono appena tornato a casa dopo l’ennesimo giro per tutta la città in cerca di un paio di sneakers (o scarpe da tennis, come si diceva una volta) che sostituiscano le mie scarpe attuali che cadono a pezzi.
Non sono riuscito a trovare un solo paio che mi piaccia.
Le Puma mi fanno il piede a trapezio (giuro), le Nike sono il male, le Airwalk (il mio sogno proibito da quattordicenne) e le Vans mi fanno i piedi come due barche e finisco per sembrare il personaggio di un manga, con le Onitsuka tiger (o Asics, come si diceva una volta) e le Puma più plasticose mi sembra di indossare dei grossi profilattici, le Converse non le ho mai avute e non vedo perchè cominciare ora, la Adidas non sforna un paio decente dai tempi delle Gazzelle (con le quali mi sembra di camminare scalzo, tanto sono basse). Reebok non pervenute, le altre marche (più o meno costose) scartate sempre per palese incompatibilità estetica. Insomma, per un motivo o per un altro non ho trovato un solo paio che mi piacesse. Sono anormale?

martedì, 01/08/2006

Quattro link che mi avanzavano

_Brutte giornate, queste qua. Tra la calura bolognese, le interminabili due settimane di lavoro che ancora mi attendono e i muscoli doloranti, ogni giorno che passa è un traguardo. Vi regalo un po’ di link, in attesa di cose un po’ più sostanziose. 
_The popularity dialer ti chiama sul cellulare, così davanti ai tuoi amici e colleghi puoi fare la figura di quello popolare e impegnato. Indicativo, e sociologicamente per nulla stupido.
_Come forse saprete, a mesi uscirà Internet Explorer 7. La Microsoft avrà sicuramente già registrato qualche dominio per farsi pubblicità, no? Proviamo www.ie7.com … 
_ Avete mai provato a cercare le parole "Chuck Norris" su Google
_8 modi per uccidere qualcuno con un iPod nano. E non basta pensare a quanto sia stato un flop, anche se aiuta..