dizionario della crisi

mercoledì, 14/12/2011

Dizionario della Crisi / 3

di

 

tecnocrazia (s.f.)

La parola è giovanissima. Nonostante l'idea sia stravecchia. E anche se si tratta di una combinazione di parole greche (per significare il "dominio della tecnica" o forse "dei tecnici"), tecnocrazia arriva all'italiano passando per l'americano. Secondo il Dizionario Etimologico Le Monnier, la nascita della parola risale al 1931. Ma technocracy la usa già nel 1919 l'ingegnere californiano William Henry Smith in un articolo-saggio (pdf) alquanto strampalato. Smith, in soldoni, voleva che l'organo supremo di tutte le istituzioni fosse un Supremo Consiglio Nazionale degli Scienziati al fine di "consigliarci e istruirci su come Vivere meglio e su come realizzare nella maniera più efficiente il nostro Fine Individuale e Nazionale".

 

Era l'entusiasmo per il progresso scientifico e tecnologico a ispirare gli utopisti tecnocratici. Tantissimi però, nei secoli precedenti, erano stati tentati dall'idea apparentemente molto ragionevole per cui il problema del governo sarebbe, in realtà, un problema tecnico. Chi meglio di uno scienziato, un esperto della materia, un intelligentone può risolvere le questioni poste ai governanti? Le tecnocrazie immaginate nei secoli non sono, però, tutte uguali. Nella Repubblica di Platone, lo Stato ideale è governato dai filosofi. Nella Nuova Atlantide di Francis Bacon (1626), la società è organizzata sulla base di principi scientifici e tecnologici e i governanti sono tutti volti al progresso della scienza, quale mezzo per il progresso della società stessa. Ma è con la prima rivoluzione industriale che la tecnocrazia comincia ad avere un sapore moderno. Per Saint-Simon, il sapere dei tecnocrati non è più filosofico o astratto: è industriale. Sono gli "industriali-dirigenti" a porsi al vertice della società e a orientare la società verso il benessere colletivo grazie al loro sapere strategico e pratico. E con gli ingegneri radicali del movimento tecnocratico americano, nella prima metà del '900, si passa a teorizzare "un soviet di tecnici autoselezionato" per governare la società. Nel corso degli ultimi decenni, il primato dell'economia ha dato alla tecnocrazia un forte connotato manageriale. Il decision-maker per eccellenza è diventato il direttore d'azienda, l'uomo che unisce sapere e carisma, conoscenze tecniche e azione pratica organizzativa. Infine, con l'ingigantirsi del captialismo finanziario, il tecnico, il sapiente è diventato l'esperto di finanza, l'investment banker, l'uomo di Goldman Sachs (che in America chiamano "Government Sachs" per il continuo scambio di poltrone tra la potente banca e Washington).

 

La tecnocrazia è tornata di moda grazie alla crisi del debito pubblico europeo. Sia in Grecia sia in Italia, i governi in carica sono stati sostituiti da economisti che hanno rivestito importanti cariche ai vertici delle istituzioni europee. E' una roba antidemocratica? Per qualcuno sì. E purtroppo qui in Italia – ci siamo abituati – i difensori della legittimazione popolare sono spesso gli stessi che più frequentemente sbandierano intolleranza, egoismo tribale e populismo-spettacolo come loro valori chiave. Ma il problema non è così semplice. Il tecnico dovrebbe avere le competenze per sapere come far bene certe cose. Ma chi decide quali cose vanno fatte? La scelta dei fini (così si dice) dovrebbe appartenere al campo della politica. E l'idea di una tecnica che prevale sulla politica rischia di sfociare nell'idea malsana per cui le ricette, i fini, le scelte non sono più discutibili. 

 

Sul New York Times due editorialisti assai diversi (forse i più diversi tra le firme di quel quotidiano) hanno parlato di tecnocrazia proprio nei giorni dell'insediamento del Governo Monti, quando la parola finisce sulla bocca di tutti, in tutto il mondo. David Brooks coglie l'occasione per criticare alla radice l'utopia europeista. Per Brooks, la crisi di questi mesi è colpa dell'ideologia tecnocratica, cioè dei burocratici elitisti che si sono convinti di poter creare una superstruttura economica e giuridica senza una comune base culturale, linguistica, civile e storica. Sono stati loro, dice Brooks, a mettere assieme ciò che non può stare assieme. E se siamo a questo punto è colpa della convinzione di questi "grigi uomini arroganti" di poter giocare con l'ingegneria sociale di nazioni diverse. La critica di Brooks usa argomenti abbastanza comuni per il pensiero conservatore: lingua, costumi, cultura, nazione contro l'utopia razionalista dei progressisti. Ma anche il super-liberal Krugman, tre giorni dopo, bacchetta l'impossibile utopia dell'Euro. Soltanto, dice lui, che non è colpa della tecnocrazia. I problemi della moneta comune sono, secondo Krugman, esattamente problemi tecnici. E gli uomini che hanno voluto l'Euro nonostante i mille rischi tecnici non sono per nulla dei tecnocrati, bensì dei romantici crudeli e senza alcun senso pratico, che hanno imposto enormi sacrifici alla gente in nome di una visione ideologica di unità e unificazione. 

 

Purtroppo, la voglia di tecnocrati che si è diffusa per l'Italia non è semplicemente data dal rispetto per le competenze specifiche necessarie in questa difficile circostanza. A ben vedere, non ci vuole neppure una grande scienza per stringere sulle pensioni e aumentare le solite imposte e accise. La voglia di tecnica è tutta psicologica. Sappiamo tutti che ci vogliono misure impopolari ma siamo pronti ad accettarle (seppure a malincuore) solo da chi è a-popolare, cioè non scelto da noi, cioè un tecnico. La tecnica è come la lotteria: sono loro a scegliere, non i "nostri". Berlusconi non avrebbe rimesso l'ICI. Bersani non avrebbe tagliato le pensioni. Ci è andata male, ma tant'è. Possiamo consolarci col fatalismo della tecnica. E' colpa di qualcun altro.

 

Per non fare l'abitudine all'idea che sia meglio un "custode sapiente" che un politico eletto ci soccorrono due ammonizioni importanti. La prima, classica, viene da Karl Popper, che al liceo nessuno arriva a studiare (almeno ai miei tempi, quando i prof di filosofia erano ancora – sebbene ancora per poco – "tutti comunisti"). Che ci ammonisce contro le teorie politiche di Platone del filososo-re e dice che è una roba totalitaria. L'altra viene invece dai Simpson. Nel 22° episodio della decima stagione, dopo la fuga del corrotto Sindaco Quimby, alcuni intelligentoni prendono il potere a Springfield, grazie a una vecchia clausola dello Statuto della Città. Si tratta di Lisa, il nerd del negozio dei fumetti, il direttore Skinner, il dottor Hibbert e altri. All'inizio le misure dei secchioni riscuotono un certo successo (anche se sono abbastanza bizzarre, come l'eliminazione della luce verde al semaforo). Poi però cominciano i pasticci e la città rischia di finire nel caos (anche se è l'intervento di un altro genio, Stephen Hawking a sistemare le cose).

 

E' una morale da ricordare. Ma che forse noi, in questo momento, non possiamo permetterci. E, diciamocelo, dopo tutti questi anni di frustrazione, un branco di gente seria e un minimo preparata ci fa godere, anche mentre ci tartassa.

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martedì, 22/11/2011

Dizionario della Crisi / 2

di


debito (s.m.)

 

Debito è parola antichissima, che probabilmente nasce assieme alle primissime regole del diritto. Prima di essere un sostantivo è un participio passato e vuol dire dovuto. Rimanda quindi a un impegno preso, che s'intende vincolante. Nella prima edizione del Vocabolario della Crusca (1612) è definito come "obbligazione di dare, o restituire altrui, che che si sia, e s’intende più comunemente di danari". In altre parole, come dice il Dizionario Universale Critico Enciclopedico di Francesco Alberti di Villanuova, del 1825, si tratta della "obbligazione di pagare altrui qualche somma di danaro".

 

Tuttavia la cosa non è così triviale come potrebbe sembrare. Il dovere che sta dietro al debito è il fondamento del diritto civile. Pacta sunt servanda, dice il motto latino. Cioè: i patti vanno rispettati. O, se si vuole, le promesse vanno mantenute. E se la promessa riguarda la restituzione di una somma presa in prestito, be', quei soldi vanno ripagati. Come sbotta Shylock, nel Mercante di Venezia (Atto III, Scena III): I’ll have my bond; speak not against my bond. Dove bond, qui, vuol dire proprio quello di cui stiamo parlando – visto che deriva dal verbo bind, cioè "legare, vincolare". Bond è legame, ma anche debito. (Un'altra parola della crisi, molto alla moda tra i più indebitati, è eurobond – cioè: che il debito lo paghi l'Europa). Per Noah Webster, autore del primo dizionario americano della lingua inglese, bond vuol dire "any thing that binds", qualsiasi cosa che vincola – cioè, aggiunge "obligation".

 

Il debito è quindi, per quanto fastidioso possa essere, ciò che lega gli uomini al rispetto degli impegni assunti. Volendo filosofeggiare, qualcuno potrebbe dire che il debito è il fondamento del vivere civile. Possiamo liberarci così, a cuor leggero, di un impegno così essenziale e basilare? Disconoscere i nostri doveri, come se non li avessimo mai assunti?

 

Il debito dello Stato è detto pubblico, perchè gira e rigira ricade su chi di quello Stato è cittadino. Per il Sabatini-Coletti, debito pubblico è "il complesso dei debiti contratti dallo Stato prendendo a prestito denaro da privati, laddove gli introiti fiscali non siano sufficienti, allo scopo di coprire il proprio fabbisogno finanziario". In America si parla di government bonds o Treasury bonds. E noi diciamo infatti "buoni" del Tesoro. Ma il buono (dal latino bonum, che secondo il Dizionario Etimologico Le Monnier deriva da una radice indoeuropea che vuol dire "utilità") è tale solo per chi i soldi li deve ricevere, non per chi li deve dare (per gli uni è buono, per gli altri è bond). Fu Alexander Hamilton, primo Ministro del Tesoro USA, a inventarsi il debito pubblico federale americano, dopo un lungo braccio di ferro con chi voleva che ogni stato badasse al suo, di debito (Jefferson in testa). Ma questa è un'altra storia (che ci riporta all'Eurobond che i Tedeschi non vogliono sentir nominare). Dopo 220 anni dall'approvazione del progetto di Hamilton, il debito pubblico americano ha aperto un account twitter. Un po' triste, in verità: twitta solo link per avere informazioni sul debito e segue solamente 4 altri twitterer: il Dipartimento del Tesoro, la Casa Bianca, un'altra agenzia del Tesoro e la Zecca Federale (che, nonostante quel che si potrebbe pensare, ha un account un po' più movimentato).

 

Il debito pubblico italiano è invece sempre stato fonte di guai. Già nel 1870, in una "lettera di un deputato a' suoi elettori" intitolata Politica finanziaria e riduzione del debito pubblico nel Regno d'Italia, un parlamentare lamentava:

 

Dappoichè si fu costituito il regno d'Italia , già molte esposizioni finanziarie abbiamo udito; tutte si rassomigliano: tutte espongono: situazioni del tesoro con gravi e progressivi disavanzi — bisogni urgenti di cassa — domande di straordinarie provvisioni di fondi, alienazioni, incameramenti, regìe, imprestiti sotto tutte le forme — domande d'imposte nuove — speranze nel progresso della ricchezza pubblica — ipotesi, calcoli, promesse d'un prossimo pareggio. Ebbene, che avvenne? Si divorarono i prodotti delle vecchie tasse e delle nuove che raddoppiarono le vecchie gravezze, e inoltre si divorò in ogni anno una provvisione straordinaria di oltre quattrocento milioni procacciata sempre con sciagurati accatti (quattro mila milioni in dieci anni), e finalmente or ci troviamo — pressochè in fin di risorse — con un disavanzo […] Dell'orribile dissesto quali sono le maledette, le infernali cagioni? L'Italia, amici miei, come altra volta dai barbari, è invasa da un'orda di selvaggi interessi: sono interessi di ambizioni immoderate, immense; interessi di cupidigie insaziabili, sfacciate; interessi di militarismo; interessi di partiti, di provincie, di regioni — di chi poco o nulla vorrebbe conferire alla cassa sociale, e prendervi la parte più opima; in una parola, sono gli interessi di un egoismo insensato, che conduce alla rovina universale o al disonore.

 

Insomma, a parte la punteggiatura bizzarra, i soliti vizi atavici. Che fare quindi? Uno slogan di qualche anno fa diceva: Cancella il debito. Ma nessuno pensava che dopo l'Uganda sarebbe toccato a noi. Oggi qualcuno lo pensa. E lo chiede. Come Padre Alex Zanotelli che firma un appello in cui si chiede la cancellazione del debito pubblico italiano. E il vincolo? il dovere? il legame? Chi è indignato dice: non è il nostro debito. E formalmente ci può anche stare, perchè lo Stato è lo Stato e i cittadini sono i cittadini (anche se lo Stato si indebita per spendere e questa spesa si chiama anche sanità, cassa integrazione, difesa, servizi sociali, sicurezza, insegnanti eccetera eccetera). Ma anche ammesso che il debito non sia nostro, lo è, ahimé, il credito. I dati dicono che poco più di metà dei buoni del tesoro sono in mano a Italiani. Il che vuol dire che cancellare il debito significa cancellare il credito – e chi di voi ha prestato soldi allo Stato non li riavrà indietro.

 

Perchè, scrive von Pufendorf ne Il diritto della natura e delle genti (nella traduzione di Giovanni B. Almici del 1757), con la nascita di una obbligazione da parte degli uni "gli altri acquistano un diritto, che avanti non avevano. Conciosiacché l’obbligazione va sempre insieme, e del pari con il diritto. Onde subito che una persona entra in qualche obbligazione, ad un’altra succede in istanti un qualche diritto, che vi risponde”. E, viceversa: morto il debito, muore il credito. Che è appunto, dice il Vocabolario della Crusca "quello, che s' ha ad aver da altrui, e per lo più moneta".

 

La preghiera che unisce tutti i cristiani recita: dimitte nobis debita nostra. Cioè: cancellaci il debito. Ma aggiunge: sicut et nos dimittimus debitoribus nostris. In breve: rinunciamo ai nostri crediti purché ci siano tolti i debiti. Siete pronti a farlo? Perchè, ricordiamoci, le promesse, poi, vanno mantenute.

giovedì, 17/11/2011

Dizionario della Crisi / 1

di


 

disinteresse (s.m.)

 

Appoggiare il Governo Monti? Festeggiarlo? Tollerarlo? Fargli opposizione? Le ragioni che muovono i nostri parlamentari sono complesse. A volte indecifrabili. L'idea che tutti vogliono offrire al popolo è quella della responsabilità, del sacrificio, del mettersi a disposizione del Paese, anche contro i propri interessi personali. Per il PDL si tratta di rinunciare al governo guidato dal proprio leader e ritirare la richiesta di elezioni. Per il PD si tratta di rinunciare a elezioni in cui avrebbe buone probabilità di vincere. Tuttavia, per entrambi i partiti maggiori, si tratta anche di non essere direttamente immischiati né fisicamente presenti in un governo che con ogni probabilità aumenterà le tasse, taglierà la spesa pubblica e varerà riforme dolorose.

 

La rinuncia all'interesse di parte – in nome del famigerato Interesse del Paese – nasconde anche una forte attenzione ai propri interessi. E questa ambiguità è tutta racchiusa in una parola che i secoli hanno sottilmente trasformato e svilito – con un'incredibile accelerazione negli ultimi anni.

 

In una scena di Bugsy di Barry Levinson (1991), il gangster interpretato da Warren Beatty corregge un tizio perchè confonde due parole americane: uninterested, che vuol dire non interessato; e disinterested, che vuol dire invece (secondo l'Oxford Advanced American Dictionary) not influenced by personal feelings, or by the chance of getting some advantage for yourself, cioè non mosso dall'interesse personale. L'errore del compare di Bugsy Siegel è divenuto con gli anni un significato accettato nella lingua inglese. Tant'è che il Garner's Modern American Usage ci dice che disinterest  nell'accezione di "mancanza di interesse" è ammesso, anche se è meno corretto e i più autorevoli scrittori ne condannano l'uso (che però è diffusissimo)

 

Sarà forse la sempre maggiore scarsità di gente disinteressata – a vantaggio dei sempre più numerosi non interessati – ma è la stessa cosa che è successa nella lingua italiana. La parola disinteresse compare infatti nel XVIII secolo. Infatti, la prima edizione del Vocabolario della Crusca (1612) non la riporta. Spunta, invece, nei Discorsi Accademici (1735) di Anton Maria Salvini, un erudito fiorentino che fu Arciconsolo dell'Accademia della Crusca. E di lì in poi viene diligentemente registrata dai linguisti nella sua accezione originaria e più vera. Infatti, nel Dizionario della Lingua Italiana di Nicolò Tommaseo e Bernardo Bellini (1869) troviamo che disinteresse vuol dire "disistima del proprio utile, noncuranza di guadagno". E nel Dizionario ortologico pratico di Lorenzo Nesi (1824) abbiamo la definizione "noncuranza del guadagno o della propria utilità". Il disinteresse ha quindi un significato nobilissimo: è la condizione dell'imparzialità, prerequisito della perfetta fairness – visto che chi agisce non può trarre nessun beneficio personale da quell'azione.

 

Il disinteresse è, se vogliamo, l'opposto di quella locuzione che ha invece imperversato per vent'anni: il conflitto di interessi. Nell'assenza di interesse (personale) in ciò che si fa c'è la migliore garanzia dell'agire giusto e del buon governo.

 

Ma la lingua è specchio dei tempi. Ci si è evidentemente accorti che il disinteresse è una rarità o un'ipocrisia. Negli ultimi mesi, mentre l'Italia si accinge al baratro finanziario e si invocano interventi giusti, nobili e non faziosi, il disinteresse dilaga tra i commentatori. Ma in un'accezione negativa. Sul Corriere della Sera, in un editoriale del 5 agosto 2011, Marcello Messori bacchetta il governo Berlusconi perché pone scarsa attenzione alla crescita del paese. Il titolista titola "Il disinteresse per la crescita". (Bugsy avrebbe reagito malissimo). Oggi, il buon Francesco Costa loda il Governo Monti a confronto di un PDL "completamente allo sbando e disinteressato alle sorti del Paese". Sul Futurista, il 20 ottobre 2011, si individua nel disinteresse la ragione per cui la Rai taglia un servizio sulle morti bianche. Mentre sul Mattino, il 18 gennaio 2011, Teresa Bartoli scrive che il silenzio di Napolitano sul caso Ruby non vuol dire che il Presidente non segua la faccenda con attenzione, perché "riserbo e distanza non significano… disinteresse". E già il 7 febbraio 2002, sul Foglio, si dice che "il disinteresse pubblico accompagna ormai stancamente la battaglia sul conflitto di interessi del premier": che non vuol dire che il popolo agisce in maniera disinteressata mentre Berlusconi fa il contrario, bensì che dell'agire per nulla disinteressato di Berlusconi non gliene frega ad anima viva. E infatti i moderni dizionari certificano l'avanzare del dark side del disinteresse. Il Devoto-Oli ha due definizioni: la prima, nobile e antica, è "attitudine o comportamento di chi non bada al tornaconto personale, in nome di principi etici, religiosi, umanitari"; la seconda è quella sempre più comune, cioè "colpevole noncuranza nei riguardi dei propri compiti o dei propri impegni". Il Sabatini-Coletti, infine, ammette il sorpasso: la prima definizione, spietata, è "assenza di interesse, di impegno, di cura".

 

L'apatia, dunque, predomina. Se interesse c'è, non può che essere personale e fazioso. Se qualcuno fa qualcosa, lo farà per un suo tornaconto. E se non ci sono tornaconti da guadagnare, meglio disinteressarsi, cioè appunto lasciar perdere. L'ottimismo di questi giorni lascia ben sperare anche sulle sorti di questa parola. Con l'aiuto di Monti (e di Bugsy Siegel) speriamo che prevalga il buon disinteresse – anche se il movente dovesse essere, per qualche mese, l'interesse dei poco disinteressati a non immischiarsi in decisioni difficili.