mercoledì, 03/03/2010

Le impronte digitali di Alessandro Gilioli

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La settimana scorsa c'è stata la famosa sentenza Google – Vividown: tre dirigenti del motore di ricerca son stati condannati per violazione della privacy per aver diffuso "un video in cui un giovane disabile di Torino veniva vessato dai compagni di scuola". Una sentenza che afferma la responsabilità delle piattaforme sui contenuti inseriti dagli utenti e pone seri ostacoli alla libertà di informazione. Alessandro Gilioli, giornalista dell'Espresso e autore di Piovono Rane, il blog più influente in Italia, commenta la sentenza, parla di libertà di espressione, di web e politica a Impronte digitali ieri sera su radiocitta'fujiko.
Prima qualche link di commentatori:
• Alessandro Gilioli – Piovono rane
• la replica dei Pm del processo
Luca DeBiase
• Massimo Mantellini ManteBlog
• Elvira Berlingieri Apogeo

 

 

Ed ecco una trascrizione dell'intervista con Gilioli:

 

La notizia della condanna di Google ha fatto il giro del mondo e ha attirato molte critiche verso l'Italia. Il problema della tutela della privacy online però esiste: siamo solo noi italiani ad accorgercene oppure esageriamo?
Quella della privacy è una questione secondaria, la principale è: chi ha la responsabilità sui contenuti della rete? E' come se uno costruisce un muro, un altro scrive un insulto e il costruttore diventa coautore di quella scritta. E' vero che la piattaforma del web, che offe il servizio , guadagna dei soldi e quindi ha una corresponsabiltà, ma questa deve giocarsi nel rendere al meglio l'utente responsabile dei propri comportamenti. Qui sta la differenza tra una piattaforma di servizi e un editore di media.

 

 

 

Google è stato condannato per violazione della privacy ma non per diffamazione; la cosa lo avrebbe implicitamente inquadrato come editore e non semplice servizio di intermediazione. Questo vuol dire che chiunque sia un intermediario della comunicazione è responsabile per quello che passa sulle sue reti?
In attesa della pubblicazione delle motivazioni, la sentenza applica una legge emanata quando internet non esisteva. E ha quindi ha il problema di inquadrare una realtà nuova in strutture vecchie. Sancisce la responsabilità dei gestori di piattaforme verso contenuti inseriti dagli utenti, nonostante Google abbia fatto passare appena 26 ore dalla prima segnalazione alla rimozione del video. La legge dovrebbe invece stabilire che e come le piattaforme possono intervenire dopo la pubblicazione e non prima, altrimenti si soffoca la libertà di espressione e il web 2.0.

 

 

 

 

E' possibile immaginare una soluzione? Possono o potranno esistere metodi per garantire sia la libertà di espressione che la privacy delle persone, o siamo condannati a un eccesso in una direzione o nell'altra?
No. L'unica soluzione possibile oggi sarebbe quella umana, perché i software non bastano. Anche in Cina sono cyber-poliziotti a battere la rete e a censurare. Se fosse applicato per Google, youtube o anche un qualsiasi blog non premoderato, allora persone dovrebbero esser pagate solo per questo monitoraggio. Il che renderrebbe ogni piattaforma aperta, social network anti-economico e lo distruggerebbe.

 

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Luca DeBiase mette in risalto la contraddizione: "le piattaforme, da Facebook a Google, sono strutturalmente poco propense a garantire la privacy, i loro modelli di business sono anzi proprio legati alla conoscenza di dati relativi alle persone per fini pubblicitari. D'altra parte, la diffusione di informazioni rilevanti su persone che hanno una funzione pubblica è un valore decisivo per la democrazia; e la possibilità che all'informazione partecipi anche la cittadinanza che non si occupa professionalmente di informazione è un valore di primissima grandezza per lo sviluppo della convivenza civile". Come si esce da questa contraddizione?
In questi giorni molti sostengono il principio "Google fa profitti con la pubblicità e quindi deve esser responsabile dei contenuti". E' una logica da vecchi editori: il problema non è Google ma la libertà di espressione nelle piattaforme aperte e la possibilità che imprese private siano interessate a crearle. Come si può fare? Basta che tra le condizioni d'uso ogni utente (che abbia un ip), sia consapevole di essere lui il responsabile civile e penale dei contenuti creati. Così ci sarebbe anche un deterrente grave.

 

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E' verosimile pensare che questi anni di straordinaria evoluzione tecnologica e libertà della rete stiano per finire sotto i colpi della regolamentazione e delle industrie tradizionali oppure la rete continuerà a trovare il modo di sfuggire alle vecchie categorie e oltre a ridefinire i nostri comportamenti quotidiani riuscirà a ridefinire anche le leggi nazionali e il business?
Spesso si dice "in rete son più bravi …", però oggi accedono alla rete anche utenti "tardivi", e non possiamo permetterci di creare un ulteriore "digital divide" tra esperti e non. Se no si finisce come in birmania, o altri paesi autoritari dove chi può riesce ad essere uno smanettone, e chi non può rimane escluso da uno straordinario strumento di libertà.

 

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In questo contesto come giudichi il nuovo testo del decreto Romani "depurato ma con dubbi" dicono molti commentatori?
Son contento che la mobilitazione online abbia costretto Romani a cambiare il decreto. Non è più proibizionista, ora è ambiguo. Dire che solo "i siti senza scopo di lucro possono uplodare video senza autorizzarione" significa escluderne molti, e la definizione "scopo di lucro" è molto vaga: un piccolo blog che fa 300 euro all'anno con gli adds pubblicitari ha "scopo di lucro"? E' per questa cifra paragonabile ad una televisione?. Mi sembra sia un decreto che, insieme ad altri provvedimenti (vedi decreto Pisanu), voglia disincentivare l'uso della rete attraverso non la censura ma la burocrazia. Burocrazia illiberale e antistorica.

 

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Negli ultimi giorni si è assistito a due manifestazioni politiche organizzate sul web. No Berlusconi Day e Sciopero Migranti hanno avuto un successo straordinario e sono la prova che anche da noi la politica, anzi una politica diversa si può fare sul web.
Si è passati da fase in cui si riteneva che l'attivismo in rete fosse sono virtuale e non reale. Il No B Day ha mostrato come è possibile l'incarnazione tra una pagina di facebook e una manifestazione di un milione di persone. O sempre una pagina su facebook sta guidando la protesta contro le bugie del direttore del tg1 Minzolini sul caso Mills, e 100mila firme sul web diventeranno cartacee e saranno portate a Minzolini.

 

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