Archivio Autore

mercoledì, 07/05/2008

Il Terrone di Ritorno (A True Story).

Probabilmente, i più anziani tra voi si ricorderanno di me. Mi chiamo Antonio, e tempo fa avevo un blog.
Da quando sono stato assunto come spin doctor del ministro Mara Carfagna, ho dovuto firmare un contratto col quale mi impegnavo fomalmente a non pronunciare più le parole: Zio Ciuffo, Vitareale(TM), Postricchione Avanguardista, era meglio il demo.

Inkiostro– un uomo che sta probabilmente limonando con Feist mentre io scrivo su un tovagliolino di carta al termine della festa di insediamento (il ministro sta attualmente ballando What is Love di Haddaway su un tavolo, tra Beppe Severgnini e Beppe Convertini)- Inkiostro, dicevo, mi ha gentilmente fatto notare di avermi donato un account quattordici anni fa, e di non averlo ancora usato. Conoscendo la potenza di quell’uomo, l’aver trovato Luca Barbarossa sul mio divano che suonava tutto il nuovo album non dev’essere stato un caso. Ordunque.

Mettiamola così: se avessi deciso di continuare a vivere a Salerno- cosa che non è stata possibile perchè al pronunciare la parola ‘stipendio‘ ricevevo in cambio lo stesso guardo di chi ha appena sentito pronunciare la frase ‘guarda che un alieno con gli stessi pois delle Pipettes ti sta rigando la macchina‘- ecco, se io avessi davvero deciso di rimanere lì, ora sarei alcolizzato perso. Essendomi trasferito a vivere altrove- in un luogo dove alla parola ‘stipendio‘ mi lanciano due banane e tre noccioline (queste ultime da prendere al volo)- ho un fegato ancora mediamente ammissibile. Per un ottantaquattrenne, intendo.

FENOMENOLOGIA DEL TERRONE DI RITORNO (A TRUE STORY)

Avere un fine settimana lungo a disposizione vuol dire avere più delle usuali trentasei ore traffico permettendo per tornare a casa. Trentasei ore traffico permettendo che normalmente possono riassumersi come: a) accendere ceri a Lari e Penati per essere anche stavolta sopravvissuto alla Roma-Napoli; b) entrare in casa, lanciare il borsone sul pavimento, fare un vago cenno di saluto all’antico genitore e lanciarsi nello struscio; c) dribblare con doppi passi e scarti brasileiri le orde di amici invecchiati male che spingono passeggini sul corso ed infine d) raggiungere chi di dovere al bar di riferimento, ed iniziare a bere.

Ci sono due orari ben precisi, mai dichiarati ma fermamente scolpiti nelle Sacre Tavole del Terrone di Ritorno (d’ora in poi, STDTDR): le undici e le diciotto. Prima, è un lungo susseguirsi di caffettini celebrativi del tuo ritorno nella città natia; dopo, un lungo susseguirsi di prosecchini barra martini celebrativi del tuo ritorno nella città natia. Intermezzati da qualche provvidenziale salto sotto al tavolo per evitare qualche altro amico invecchiato male che spinge passeggini.

Dalle STDTDR (volume primo, edizioni ISBN, postfazione di Massimo Coppola e Luca Barbareschi, euro 27): le due macrocategorie del Terrone di Ritorno.
1) il leghista. colui che, dopo quarantottore passate a rieti per uno stage, sfoggia un perfetto accento brianzolo. le sue frasi sono intercalate dal sintagma ‘voi che vivete ancora qui‘. la domanda introduttiva retorica ‘come va?‘ (quand’anche voi doveste rispondere ‘mah, normale. a parte che un lama mutante ha appena sterminato a colpi di sputo la mia intera famiglia‘) diviene semplice artificio teatrale per la successiva frase ‘io comunque guadagno (CIFRA) euro al mese. netti. e tu?‘. lì dove (CIFRA) è ovviamente un reddito che voi normalmente associereste solo a calciatori, veline e giornalisti che pubblicano cinque indignati libri al mese contro berlusconi.
2) il malinconico. gli viene l’occhio umido già al solo utilizzare il ‘voi’ al posto del ‘lei’ ordinando lo stracchino dal salumiere. le sue frasi sono intercalate dal sintagma ‘queste cose non mi succedono più, lissù‘- di nuovo accompagnate da occhio umido- normalmente mentre, reo di essersi fermato ad uno stop per non uccidere un’ottuagenaria, si ritrova accerchiato da una gang di tifosi nocerini che roteano mazze ferrate mentre un’allegra famigliola di quattro su una vespa senza casco gli ha appena divelto lo specchietto destro dell’auto. la notte, poi, lo si ritrova su una panchina del lungomare a sospirare alla luna ed al suo riflesso tenue, sbronzo, malinconico e solitario, mentre un giro di marocchini innervositi dalla sua presenza che non ricerca nè droga nè marchette, inizia ad escogitare la sua soppressione.

Eppure io ho sempre paragonato la mia cittadina di provincia alle sabbie mobili. Il che vale per Salerno (nel mio caso) o in quella che voi altri Terroni di Ritorno vorrete inserire al suo posto. Sonnolenta, rassicurante, soprattutto: comoda. Il risultato è la stessa differenza che passa tra quando hai un lavoro, devi fare mille cose in un giorno e finisce che ne fai millecinque, e quando non fai un cazzo da mane a sera, ne devi fare due e arrivi a fine giornata che ne hai fatte meno cinque. Sei lì, sonnolento, rassicurato ma soprattutto: comodo, e affondi. La provincia è così: il suo abbraccio è talmente forte che ogni singlo spostamento, ogni singola decisione diviene impossibile. E ne saprò qualcosa, avendo passato i miei ventanni (seconda fase della glaciazione del mesozoico, all’incirca), fermamente impegnato a lanciare freccette contro un muro bianco.

Che ne è stato di tutto quel dolore che abbiamo creduto di provare da giovani ma soprattutto di quella maglietta rossa che si avvitava così bene, insomma, mi ritrovo a pensare mentre Sandro Bondi e Bugo capeggiano il trenino brasileiro di una festa che si sta spegnendo. Nel frattempo, pare che Inkiostro abbia rapito il criceto di James Murphy e sia intenzionato a restituirlo solo dopo aver avuto remixata la sigla di Get Black e ricevuto l’assicurazione che i Rapture non faranno mai più dischi. E’ ora di tornare a casa. Speriamo che Luca Barbarossa se ne sia andato.